Chissà se la scelta di portare quell’unico poster, da Bologna a Roma, anni fa non sia stata premonitrice: Massimo Troisi con la sua bicicletta fermo a guardare il mare, nel «Postino». «Lui mi piace, istintivamente. E quello è il suo film più bello», si schermisce Maurizio Landini. La passione e il candore di Troisi, la voglia di parlare fuori dai denti di Landini. Non è stato facile l’ultimo anno del segretario generale Fiom: amatissimo dal grande pubblico, ma osteggiato dentro la sua Cgil. Gli avversari nel sindacato, cigiellini come lui ma senza tuta blu, la spiegano così: che è un po’ spigoloso, difficile al compromesso, che forse sarebbe riuscito, per esempio, a Claudio Sabattini. Ma quella era anche un’altra Italia, va detto.

Oggi Landini ha semplicemente preso atto che la concertazione è morta e che il sindacato, se vuole cambiare, deve tagliare il cordone ombelicale con il partito, non elemosinando un angolino ai tavoli del negoziato. Ma agendo da protagonista, alla pari. E in questa rivoluzione Matteo Renzi, il giovane e spregiudicato premier, in effetti lo sta aiutando.

«Basta con le parodie della democrazia, basta con i riti. Basta dirci che il sindacato sta bene, che fa un mucchio di tessere e che ha il maggior numero di iscritti in Europa. Queste sono balle. La verità è che un alto numero di persone, di lavoratori, non solo non si sente rappresentato da noi, ma oggi ci percepisce come un problema. C’è una crisi di rappresentanza, nostra e della politica».

Però mi pare che la politica sia già più avanti di voi, almeno sul piano di ciò che appare. Personaggi come Grillo e Renzi hanno rivoluzionato i linguaggi e la partecipazione, hanno risvegliato l’entusiasmo. Il sindacato, in effetti, oggi appare «antico», «inadeguato».

Con Grillo e Renzi mi pare che si sia riattivato un coinvolgimento dei cittadini. Anche se la crisi della politica non è ancora superata: metà del corpo elettorale non va a votare, e l’astensione aumenta nonostante i risultati di Grillo. Nei due fenomeni vedo la stessa voglia di cambiamento, anche se credo che la persona sola al comando, come fu per Berlusconi, non sia un fatto positivo. E anzi ritengo che possa essere pericolosa. È un bene che dopo anni di immobilismo ci sia la velocità, ma la democrazia ha anche bisogno di ascolto, confronto, partecipazione. Certo, poi c’è la decisione, ma senza saltare i passaggi necessari.

Partecipazione che, afferma la Fiom, è mancata nel congresso Cgil.

Lo dicono i dati. Quando hai 5,7 milioni di iscritti, e votano meno di un milione di persone, cosa dire? Che ha partecipato il 17%, mentre l’83% è rimasto a casa. E perché? Vuol dire che non siamo riusciti a coinvolgerli.

Come mai?

Perché il modo in cui discutiamo è antico, superato, inadeguato. Dedichi solo 45 minuti a due documenti, peraltro elaborati da 150 persone a Roma senza aver fatto partecipare altri. E chiedi ai tuoi iscritti di alzare la mano.

In effetti nell’epoca del web, dei social, è un po’ surreale. Avete un’altra idea di partecipazione, alla Fiom?

Sì, avevamo un’altra idea, che peraltro era contenuta nel nostro emendamento sulla democrazia. Sarebbe stato giusto avere i documenti solo come traccia, e poi aprire un periodo di un mese, 40 giorni, in cui facevi tante assemblee, dibattiti e iniziative pubbliche. Inviti ospiti esterni, coinvolgi i direttivi provinciali e di categoria: sono migliaia e migliaia i nostri delegati che possono parlare, dire la loro, invece di alzare solo la mano. Solo alla fine fai votare, dopo che le persone si sono informate, hanno parlato tra di loro. La stessa modalità l’avevo proposta per la discussione sul Testo Unico. Non dobbiamo avere paura del dibattito, del confronto. Basta con i riti, le liturgie, le parodie della democrazia.

Tra l’altro, contestate anche le percentuali di delegati assegnate dalla Cgil.

Si sta violando il regolamento che ci eravamo dati, e quindi anche un patto. Il patto che era alla base del documento unitario, che avevamo accettato di siglare proprio per abbandonare le contrapposizioni pregiudiziali e aprirci al confronto sul merito. Il regolamento dice che deve esserci un «adeguato rapporto» tra l’esito degli emendamenti da noi proposti e i delegati: noi abbiamo preso il 34% con quello sulla democrazia, e se va bene ci stanno riconoscendo il 15%. Ci siamo associati in questa protesta con altri due segretari della Cgil, Moccia e Nicolosi, perché il peso di tutti i nostri emendamenti è stato sottovalutato.

Lo stesso è avvenuto nel congresso lombardo, con due liste contrapposte. Peraltro, non so se sia stata una coincidenza, Milano è la roccaforte di Camusso, dove è stata eletta delegata. A Rimini vedremo dunque una rottura?

Ai congressi nulla accade per caso, e credo ci sia un segnale molto preciso. Non posso prevedere il futuro. Dico solo che i due fatti che potranno portare a chiudere diversamente quello che era stato aperto con un accordo unitario, non li ha determinati la Fiom, ma chi oggi guida la Cgil: 1) il 10 gennaio non solo i metalmeccanici, ma tutta la confederazione, è stata messa davanti a un accordo già scritto e firmato, senza essere stata mai coinvolta; 2) si sceglie di darci meno delegati di quanti dovremmo avere.

L’accusa che viene mossa a Landini è che parla da solo con Renzi, che ha fatto un asse contro Camusso, e che discute temi confederali, che non spetterebbero alla categoria Fiom.

Credo che una categoria possa e debba porre tutti i problemi che si incrociano con la vita delle sue persone. La lettera che ci ha pubblicato Repubblica riassume il nostro documento programmatico ed è sempre stata un testo alla luce del sole, che io semplicemente sottopongo al nuovo premier. Dobbiamo smetterla di pensare che l’unico orizzonte del sindacato sia ottenere un posto a un tavolo: con la politica devi parlare da pari, partendo dalla tua piattaforma, che costruisci con le tue persone. La vecchia concertazione, che poi in realtà negli ultimi anni non si è mai fatta, è perdente, perché appiattisce il sindacato sui partiti, rende le tue ragioni una semplice articolazione della politica, non un’elaborazione autonoma. Nell’agosto del 2011, alla vigilia del governo Monti, la Cgil ha firmato un documento con tutte le forze sociali e politiche, in cui al primo punto c’era l’obbligo del pareggio di bilancio. Quel testo fu presentato a nome di tutti da Emma Marcegaglia: fu uno dei punti più bassi di autonomia mai toccati. Ora Matteo Renzi ci sfida: lui vuole le mani libere, essere autonomo. Bene, siamo autonomi anche noi, e possiamo mobilitarci se non abbiamo risposte.

Va bene, ma perché non vi vediamo in piazza come con tutti i passati governi? Il decreto sui contratti a termine non meriterebbe una mobilitazione?

Prima della nostra intervista ero in piazza davanti a Palazzo Chigi per la Micron. E lunedì potremmo chiudere positivamente la questione Electrolux, grazie al fatto che il governo ha rifinanziato i contratti di solidarietà. Non lo faceva dal 2005, ed è merito della nostra mobilitazione. Non nascondo che Renzi ha posto elementi di novità, come ad esempio gli 80 euro in busta paga: io non parto perciò da posizioni pregiudiziali. Noto però anche i limiti: il decreto sui contratti, ma anche il fatto che non ha dato nulla ai pensionati, ai precari, a chi guadagna poco sopra i 25 mila euro e paga anche lui le tasse. Tutti problemi che vogliamo discutere nel nostro congresso, insieme a tutto il Jobs Act: e da lì organizzare mobilitazioni, ovvio, se serviranno.

La sinistra in tutto questo che futuro ha? Vi preoccupano le riforme istituzionali proposte dal governo?

Ci preoccupano, e non a caso ho firmato l’appello dei professori. Rodotà sarà ospite al congresso. Continuiamo con la «Via maestra». E vi dò un’anticipazione: stiamo pensando a una raccolta di firme per un referendum abrogativo del pareggio di bilancio in Costituzione.