Il tono è conciliante, la sostanza no. «Una soluzione si trova», garantisce Renzi di fronte alle immortali telecamere di Bruno Vespa, riferendosi alla riforma costituzionale. Però, aggiunge, «non ci sia chi pensa di tornare sempre daccapo. Entro il 15 ottobre si decide al Senato e alla fine ci sarà il referendum». Sembra un’ovvietà. Non lo è. Quando il premier dice «ricominciare daccapo» allude alla possibilità di tornare sull’art.2 della riforma, quello che regola le norme per eleggere i senatori e che, per logica e per Costituzione, dovrebbe quindi essere modificato per rivedere quelle norme. Solo che in questo caso la riforma dovrebbe tornare una volta di più alla Camera, slitterebbe di qualche mese e questo per Renzi è intollerabile.

Ieri, dunque, Renzi ha annunciato non una possibile mediazione ma un certissimo scontro frontale, che si consumerà oggi stesso nella riunione del gruppo al Senato con lo stesso premier. La minoranza infatti chiede proprio che si riapra la discussione sull’art.2. In caso contrario «non ci sarebbe un accordo ma un pasticcio», ha detto chiaro e tondo ieri Vannino Chiti, che pure è uno uno dei meno rigidi tra i dissidenti. Chiti indica una via possibile per modificare senza scorciatoie, ma anche senza perdere troppo tempo, le norme sull’eleggibilità. Ma essendo il solo obiettivo di Renzi quello di bruciare i tempi per incassare i dividendi in termini di propaganda, lo scontro è assicurato. Con tutto quel che ciò comporta: una caccia al singolo voto che non avrà nulla da invidiare ai mercanteggiamenti berlusoconiani.

I renziani contano di convincere a ripensarci una decina dei 25 senatori del Pd dissidenti. Il conto dovrebbe essere abbastanza preciso. Però senza quei 15 voti dai banchi del Pd, la riforma sarebbe destinata a essere affossata nonostante il soccorso ex azzurro dei nuovi padri della Patria: i senatori di Verdini, Cosentino e Lombardo. Per il governo diventa dunque fondamentale conquistare ogni singolo voto, pescando soprattutto nelle file numerose ma estremamente composite e divise del gruppo misto.

Sembra poi destinata ad aprirsi una classica disputa costituzionale sui numeri necessari per l’approvazione. D’Alimonte, costituzionalista di fiducia del premier, ha assicurato ieri che sarà sufficiente la maggioranza dei presenti in aula, come per le leggi ordinarie. L’opposizione la pensa all’opposto e la Carta recita in effetti: «Le leggi di revisione costituzionale sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione». Si tratta di una questione che potrebbe rivelarsi decisiva. Non esiste infatti alcuna possibilità che dal gruppo di Fi arrivino voti in soccorso del governo, non dopo che Berlusconi, subito amplificato da Brunetta, ha denunciato l’intenzione di edificare «un regime» proprio grazie alla riforma in causa. In compenso, anche per evitare il rischio di elezioni anticipate (per la verità molto esiguo ma non inesistente), alcuni senatori azzurri potrebbero scegliere di uscire dall’aula per abbassare il quorum: espediente inutile se si richiede la maggioranza assoluta e non solo quella dei presenti.
In realtà la caccia all’ultimo voto per assicurare l’approvazione della legge è solo il più vistoso fra i problemi. Il punto davvero dolente sono i 450mila e passa emendamenti. E’ evidente che la commissione Affari costituzionali non voterà e che la riforma arriverà direttamente in aula, senza relatore. A quel punto gli emendamenti saranno falcidiati, ma ne resteranno circa 10mila. Con l’Ncd in massimo fermento, terrorizzato dalla certezza di non portare nella prossima legislatura più di 15 parlamentari nella migliore delle ipotesi, e dovendo contare sul sostegno determinante di una forza di assai dubbia affidabilità come la compagnia di ventura verdiniana, l’incidente è davvero dietro ogni angolo.

Comunque vada a finire, quella di Renzi sarà l’opposto di una marcia trionfale. Si può capire perché la ministra Boschi abbia deciso di mettere le mani avanti più di come non si può: «Il giorno decisivo per la riforma sarà quello del referendum popolare». Ma anche quel referendum qualche sorpresa potrebbe riservarla.