«Suggeriamo ai giovani turchi di aspettare la presentazione del Job Act da parte delle segreteria prima di avanzare critiche e suggerimenti». Su Repubblica il portavoce della segreteria Pd Lorenzo Guerini replica al documento della sinistra interna (Matteo Orfini, Fausto Raciti, Valentina Paris, Chiara Gribaudo) che, giovedì, ha stroncato – al di là dei toni dialoganti – il piano sul lavoro a cui sta lavorando un team di renziani (Madia, Gutgeld, Taddei, Faraone). Il testo sarà presentato entro gennaio. Icontenuti, anticipati negli scorsi giorni dagli estensori, sono «quelli espressi da Renzi durante la campagna per il congresso e sulle quali si sono espressi tre milioni di nostri elettori in modo chiaro», aggiunge Guerini. Ma, per la cronaca, metà degli iscritti Pd, e cioè quelli che hanno votato Cuperlo e Civati, quei contenuti non li hanno affatto condivisi.

Proprio il giorno in cui l’Osservatorio politico Centro italiano studi elettorali individua il profilo dell’elettore renziano in «più operaio che pensionato, praticante anche se con moderazione ma, soprattutto, di sinistra», è sempre più probabile che il job act costringerà a una prima conta nei nuovi gruppi dirigenti Pd, dove Renzi ha la stragrande maggioranza, ma anche nei gruppi parlamentari.

La sinistra interna dovrà decidere come dare battaglia. Sapendo di non avere i numeri dalla propria. Ieri una prima defezione di rango: l’ex bersaniano Davide Zoggia, già responsabile organizzazione e da tempo in sofferenza verso i suoi, ha fatto un passo verso il carro del leader: il job act può essere, ha detto, una «base importante da cui partire per dare maggiore garanzie a chi lavora e al tempo stesso attirare investimenti affinché i posti di lavoro tornino a crescere anche in Italia».