Esortazioni perentorie che arrivavano dritte al punto: «Not too slow and not too fast but a real good time while it last» (né troppo lento né troppo veloce, ma un gran divertimento finché dura), oppure: «You can wake up the devil, raise all the hell, no one will be there to go home and tell» (puoi risvegliare il diavolo, fare tutto il casino che vuoi, non ci sarà nessuno capace di tornare a casa e raccontarlo). E a seguire il nome dell’evento (ricorrente l’eufemismo social party/dance), il nominativo di chi lo organizzava, l’indirizzo, la data, il prezzo d’ingresso e altri dettagli. Erano i biglietti d’invito che davano accesso ai cosiddetti rent party, fenomeno Usa che tra gli anni Venti e Trenta contribuirà allo sviluppo del jazz.

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Organizzate dagli inquilini più indigenti per pagarsi l’affitto (da qui la locuzione rent party), le feste si svolgevano nelle abitazioni private di Harlem, quartiere newyorkese che a partire dagli anni della prima guerra mondiale accoglierà oltre 200mila persone, in particolare afroamericani attratti a nord dal crescente bisogno di manodopera bellica (anche non specializzata) e dal conseguente miraggio di paghe più dignitose rispetto ai lavori nelle piantagioni del sud.

MARCUS GARVEY

Nel suo saggio «Race and Real Estate: Conflict and Cooperation in Harlem, 1890-1920», lo storico Kevin McGruder racconta Harlem negli anni della Grande migrazione (6 milioni di neri lasciarono il sud tra il 1916 e il 1970).

Il fatto, ad esempio, che Macy’s, Penn Station e i teatri di Broadway avessero occupato aree fino a quel momento di pertinenza afroamericana, indusse molti neri a spostarsi a Harlem. Inoltre la metro di New York era stata prolungata fino alla 145esima strada consentendo ai leader della comunità afroamericana di dar vita a una «black city» autonoma all’interno della città.

Emblematico, a tal proposito, il caso dei seguaci dell’Universal Negro Improvement Association di Marcus Garvey (predicava il ritorno in Africa e l’indipendenza economico-politica dei neri) che negli anni Venti daranno vita a una rete di negozi e locali quali lo storico Renaissance Theater and Casino (dove si esibiva Duke Ellington). Anche le chiese nere si erano spostate strategicamente a Harlem e alcuni residenti afroamericani avevano cominciato ad acquistare case. Ovviamente i più abbienti, perché il resto degli abitanti versava in condizioni disastrose.

LA DIFFERENZA

Si calcola che in un singolo isolato potevano vivere fino a 7mila persone e che un appartamento di quattro/cinque stanze non di rado finiva per ospitare anche due nuclei famigliari. A New York non erano certo casi isolati, con l’unica differenza che a Harlem gli affitti erano in media più alti e la manodopera afroamericana sottopagata.

Quando calava la notte, in molte case la disposizione del mobilio cambiava radicalmente, con salotti e sale da pranzo che si trasformavano in camere da letto. Secondo una ricerca della Library of Congress vigeva, in particolare, il «turno del sonno», ossia chi faceva le notti andava a coricarsi nel momento in cui chi aveva lavorato di giorno usciva all’alba lasciando libero il posto: i letti, insomma, non si freddavano mai.

Nonostante tante e tali difficoltà la richiesta di affitti e case ammobiliate a Harlem era enorme e i proprietari – perlopiù bianchi – non si facevano pregare. Altri proprietari, terrorizzati dalla crescente migrazione nera, avevano invece venduto e si erano trasferiti altrove: Brooklyn, Bronx, Queens o Westchester. Con gli affitti alle stelle (un tempo molto bassi e ora raddoppiati se non triplicati), gli Harlemites, gli abitanti di Harlem, cominciarono per forza di cose a organizzarsi. Da qui il fenomeno dei rent party per tirar su l’affitto messe in piedi prima che il proprietario di casa passasse a riscuotere.

Negli appartamenti o negli scantinati si suonava e si danzava. Oltre a un minimo costo di ingresso, si pagava anche per consumare alcolici e cibo (preferibilmente pollo fritto e insalata di patate). Spesso a fine evento il padrone di casa passava con un cappello in mano e raccoglieva i danari. Tutto perfettamente ispirato alla tradizione religiosa e ai riti sociali afroamericani: dalle offerte in chiesa alle fritture di pesce del sabato sera al sud (in famiglia, tra amici, pubbliche e all’aperto, da cui anche «Saturday Night Fish Fry», il noto pezzo di Louis Jordan).

Poiché siamo negli anni del Proibizionismo e poiché la produzione e il consumo di alcol erano illegali, i biglietti di invito venivano distribuiti con massima cura: la polizia prendeva di mira più le case dei neri che non quelle dei contrabbandieri. Il successo fu immediato: le feste in appartamento costavano meno di qualsiasi locale pubblico e soprattutto consentivano di aiutare una persona in difficoltà.

Si tenevano generalmente di sabato, non solo perché era un giorno di paga ma perché la domenica donne di servizio, addetti agli ascensori, facchini o operai non lavoravano. Si organizzavano – ma più raramente – anche di giovedì, giorno in cui i domestici fissi non erano obbligati a rientrare.

Le feste – che si diffusero a macchia d’olio – andavano avanti fino a notte fonda spingendosi a volte fino alle otto del giorno dopo.

GIOCO D’AZZARDO

In un solo isolato potevano tenersi contemporaneamente dodici rent party e addirittura cinque nello stesso momento in un unico condominio. Poiché gioco d’azzardo e prostituzione potevano essere presenti, non tutti guardarono di buon occhio il fenomeno dei rent party.

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Innegabile però che quello che nasceva da serie e oggettive difficoltà economiche si sarebbe rivelato uno stimolo fondamentale per la storia del jazz. Capitava allora che pianisti come Willie “The Lion” Smith o Fats Waller si ritrovassero fianco a fianco improvvisando lunghe e spettacolari jam session. Allo stesso tempo le case si riempivano di artisti e happening, con il ghetto più popoloso degli Stati Uniti che assumeva un ruolo centrale per la comunità afroamericana brulicando di vita e attività.

Non a caso il fenomeno dei rent party andrà di pari passo con un ricco fermento che agiterà al tempo gli intellettuali neri: l’Harlem Renaissance. Ne facevano parte scrittori e poeti tra cui Langston Hughes, James Weldon Johnson o Jean Toomer, tutti intenti a fornire un’autonoma definizione di sé, lontana dai parametri e dagli stereotipi della cultura dominante bianca che li emarginava. Secondo il nuovo movimento artistico-culturale era essenziale ricercare una propria identità che doveva essere l’oggetto del fare artistico. Ghiottissimo di rent party era proprio Langston Hughes, tra i maggiori poeti e scrittori afroamericani, massimo esponente della «poesia jazz» (i ritmi sincopati e le frasi ripetute di blues e jazz vengono incorporati nella scrittura). L’intellettuale riferiva che i party «in quei piccoli appartamenti in cui viveva chissà chi, erano più divertenti di qualsiasi altro locale. Quando venni a Harlem, rimasi colpito – come poeta – dalle piccole rime sugli inviti. Allora li ho tenuti, adesso ho una buona collezione».

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LA PRIMA ONDATA

I biglietti di invito di Hughes sono conservati alla Beinecke, la biblioteca di manoscritti e libri rari dell’università Yale a New Haven, in Connecticut.

Risalgono perlopiù agli anni ’40/’50 ma mantengono intatta l’ironia e l’ispirazione originaria; sono una delizia per gli occhi e raccontano l’evoluzione di un fenomeno che già dal 1933 aveva cambiato pelle. In quell’anno non solo finiva il Proibizionismo ma tramontava anche la prima ondata dei rent party – determinante fu la legalizzazione dell’alcol: continuare a venderlo privatamente sarebbe stato troppo pericoloso. Sui successivi biglietti di invito permaneva l’ingresso a pagamento e l’accenno al rinfresco, tutto sembrava identico ma gli anni passavano e la magia originaria stava lentamente svanendo. Così come giorno dopo giorno la gentrificazione a Harlem si è fatta sempre più intensa, con la media/alta borghesia bianca che nel quartiere erode sempre più spazi esigendo alloggi (per quattro stanze e due bagni ci vogliono 2milioni di dollari e 2mila al mese di condominio) e servizi (ad esempio negozi bio carissimi) che i neri (reddito medio 37mila dollari l’anno) non potranno mai permettersi (come testimonia Michael Henry Adams sul New York Times nel pezzo «The End of Black Harlem»). E risuona, ieri come oggi, la stessa, drammatica domanda che lo scrittore e poeta James Weldon Johnson poneva nel suo «Black Manhattan», storico studio del 1930 dedicato a Harlem: «I neri di Harlem saranno capaci di tenersi il quartiere?».