Membro delle Forces Françaises de l’Intérieur, la Resistenza francese, decorato con la Croce di guerra a 16 anni, alla fine del conflitto mondiale René Vautier decide di battersi non con le armi ma con la macchina da presa. Nel 1946 entra all’Idhec (la Scuola di cinema a Parigi, ndr) e mentre frequenta ancora i corsi partecipa clandestinamente alla realizzazione di La grande lutte des mineurs (La grande lotta dei minatori), film collettivo firmato da Louis Daquin(1948). Nel 1950, nonostante la censura gli confischi una grande parte delle bobine, riesce a terminare Afrique 50, il primo film francese anticolonialista, un capolavoro del cinema impegnato, che gli costerà tredici capi di imputazione e un anno di prigione. Da allora, nonostante le ferite fisiche (diceva di sé, con umorismo, che era probabilmente l’unico regista ad avere conficcato in testa un pezzo di macchina da presa, a causa di un colpo sparato sulla linea Morice tra Algeria e la Tunisia),i molti anni di prigione e un memorabile sciopero della fame, la lotta di René Vautier contro ogni forma di oppressione politica, economica e culturale (la censura) non si fermerà più.

Un combattimento, il suo, che ha luogo su molteplici fronti: contro il capitalismo (Un homme est mort,1951, Transmission d’expérience ouvrière, 1973), e contro il colonialismo, in particolare la guerra d’Algeria (Une nation, l’Algérie, 1954, Algérie en flammes, 1958, Avoir 20 ans dans les Aurès, Techniquement si simple e La Caravelle, realizzati tutti e tre nel 1971 come le registrazioni di numerose testimonianze sulla tortura). Ma anche contro il razzismo in Francia (Les Trois cousins, Les Ajoncs, 1970), contro l’apartheid in Sudafrica (Le Glas, 1970, Frontline, 1976), contro l’inquinamento (Marée noire, colère rouge, 1978, Hirochirac, 1995), contro l’estrema destra francese (À propos de l’autre détail, 1984-88). Spesso le sue battaglie sono anche in sostegno di qualcosa, i diritti delle donne (Quand les femmes ont pris la colère, codiretto con Soazig Chappedelaine, 1977) o la Bretagna a cui ha dedicato magnifici documentari (Le Poisson commande, 1976). Chiaramente inseparabili, (Afrique 50 disegna con precisione i legami tra capitalismo e razzismo), tutti questi aspetti dell’opera di Vautier si delineano con maggiore evidenza in alcuni film, come La Folle de Toujane (realizzato insieme a Nicole Le Garrec, 1974), che è anche il film prediletto del regista, dove unisce in una forma interrogativa, e profondamente disperata, la resistenza algerina e l’autonomismo bretone.
Al tempo stesso René Vautier crea delle infrastrutture, i mezzi necessari alla produzione e alla diffusione dei film in lotta contro i circuiti di stato e commerciali. Direttore del Centro Audiovisivo di Algeri tra il 1961 e il 1965 ha formato la prima generazione dei cineasti algerini, e coordinato la realizzazione collettiva di Peuple en marche, sulla guerra e sul primo anno del Paese dopo l’indipendenza. In quel periodo avvia anche i Ciné-Pops, un’associazione popolare di «cultura cittadina per il cinema». Nel 1972 dà vita all’Unità di Produzione Cinéma Bretagne il cui slogan è: «Dal colonialismo al socialismo». Nel 1984 apre Images sans chaines, un canale di diffusione per i film censurati dalla televisione francese.

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Ricco (e solamente) dei suoi sei decenni di lotta, ispirato anche lui, almeno all’inizio, dall’esperienza di Joris Ivens, Vautier rappresenta l’archetipo del cineasta impegnato. Le sue conoscenze tecniche e logistiche, la sua lucidità nell’analisi storica, la sua coraggiosa ostinazione nutrono da una parte un estremo rigore plastico, capace di declinare al presente la sua grandezza epica, e dall’altra una continua invenzione formale, grazie alla quale riesce a superare in qualsiasi circostanza le difficoltà pratiche legate ai film di «intervento sociale». Le scelte di René Vautier suppongono una concezione totalmente rinnovata del cinema. In termini pratici di produzione, riprese, ideazione, montaggio, distribuzione; e in termini stilistici, sia il documentario che il saggio o il film narrativo, ogni gesto cinematografico è ripensato alla luce di un ideale collettivo – comprese le questioni che riguardano la storia del cinema o la conservazione dei film.

Saggista, pedagogo, e critico René Vautier ha dedicato in modo diretto molti dei suoi film ai problemi legati alla natura delle immagini. Le Remords, scritto nel 1956 e girato nel 1974, è un pamphlet burlesco e caustico contro la la codardia di quei registi che cercano mille ragioni per non impegnarsi nel confronto coi propri tempi, sottraendosi alle loro responsabilità. Mourir pour des images (1971) ripercorre la vicenda di Alain Kaminker, operatore morto in mare durante le riprese sull’Ile de Sein trasformando in una lezione di umanità ciò che la sua drammatica storia ci ha lasciato. Et le mot frère et le mot camarade (1988), descrive il ruolo dei poeti e delle loro immagini (letterarie) durante la Seconda guerra mondiale, cosa che permette di trovare una risposta all’ossessiva domanda di Hölderlin: «A cosa servono i poeti in tempi di privazione?».Destruction des Archives, filmato da Yann Le Masson (1985), mostra René Vautier mentre cammina tra i chilometri di documenti, pellicole e non, fatti a pezzi con un’ascia da un commando «non identificato», e costituisce uno degli esempi più eloquenti sul potere delle immagini, contro le quali bisogna accanirsi sempre di più; un moderno capitolo in nitrato d’argento nella storia del vandalismo e dell’odio.

Ai film di Vautier si accompagnano le numerose dichiarazioni pubbliche del regista, e il suo libro, Caméra citoyenne (Rennes, edizioni Apogée, 1998), che ripercorre soprattutto i casi di censura e di autocensura,a tutti i livelli, nell’esistenza di un film: concezione, scrittura, produzione, riprese, diffusione. Attraverso l’insieme dei suoi interventi, orali e scritti, René Vautier ha sviluppato un pensiero sull’immagine coerente e radicale. Che sia sempre formulato in modo chiaro, non lo rende meno profondo, attualizza anzi la sua principale rivendicazione: l’efficacia. Ogni film di Vautier costituisce un pamphlet, un riparo per gli oppressi e per le vittime della Storia, una piccola macchina da guerra in favore della giustizia. E come le armi nel maquis servono, vengono date, scambiate, prestate, gettate via, distrutte perdute nascoste o talvolta dimenticate a lungo nella loro fodera, così ciascuno dei film di Vautier rappresenta un caso particolare, un episodio di una storia che è forse la più romanzesca nella storia del cinema. E pure se pieni di cicatrici, quei film sprigionano un vera bellezza, non solo sul piano visuale o stilistico, ma come espressione di un cinema elevato alla pienezza della sua necessità e della sua potenza.

Farsi passare per un cadavere, evadere di prigione e ritornarvi volontariamente, trovare un elicottero per un giorno in modo da riuscire a filmare delle sequenze proibite, le imprese di René Vautier, persona seducente e infaticabile, sono tali e numerose che potrebbero riempire molte altre vite. Osservando i comportamenti sempre dediti e devoti di René alla causa delle immagini, comprese quelle perdute come è per Un homme est mort, è difficile non pensare subito a una passione. Per le immagini sopporta la tortura, la prigione, la fame, i pugni, sfiora di continuo la morte, assiste a quella degli altri. C’è in tutto questo una fede incredibile, propria di un uomo del XX secolo, una passione laica, rivoluzionaria e collettivista che ci offre un’idea di quanto rappresentavano le parole di Denis Diderot. Per René Vautier le immagini argomentano una verità critica in un dibattito visivo senza fine, il cui orizzonte può essere solo uno stato più giusto del mondo.