«Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi. Ci sono uomini che lottano per anni e sono ancora più bravi. Ci sono uomini che lottano per tutta la vita, questi sono imprescindibili». Questa poesia di Bertolt Brecht si ritaglia perfettamente sulla agile e snella figura di un uomo che ha dedicato la sua lunga vita, quasi un secolo, tutto il Novecento, a indagare e studiare, viaggiare, intraprendere infiniti studi sul campo attraverso tutti e cinque i continenti. Sin dalla giovinezza, subito dopo la laurea, Renè Dumont, l’agronomo ed ecologista, politico e pensatore di prim’ordine, ha sempre coniugato la ricerca sul campo con gli studi seri e la scrittura. Nato in Francia, in quel nord del paese devastato dalla prima guerra mondiale, fu subito profugo. L’esperienza vissuta lo portò per tutto l’arco della sua esistenza a non indossare mai una divisa. Fu pacifista irrinunciabile.

LAUREATO IN AGRARIA, immediatamente inviato nell’Indocina francese, vi approfondì lo studio della cultura del riso. Per capire e comprendere, per consigliare al meglio, venne in Italia all’Istituto di Risicultura di Vercelli. E questo fu il metodo seguito, sempre. Viaggiatore attraverso l’Africa, l’Asia e l’America Latina, accumulò una messe di sapere incredibile. Se da giovane fu attratto dalle sirene della «rivoluzione verde», quella rivoluzione che trasformò l’agricoltura in appendice della chimica e dell’industria, presto si rese conto degli effetti nefasti dell’impatto della chimica e dei mezzi di lavorazione meccanici sui suoli e sulla vita stessa dei contadini del mondo.

FU TRA I PRIMI A DENUNCIARE le dust bowls, le tempeste di polvere che nelle pianure del midwest americano annientarono la fertilità del suolo e le speranze di vita di lavoro di migliaia di piccoli agricoltori generando quella emigrazione interna cantata da John Steinbeck in Furore. Il suo guardare sul posto, l’esaminare i fatti e lo scriverne, gli valsero una fama e una riconosciuta competenza che lo portarono a consigliare e dare del tu a capi di stato come Fidel Castro. Con il leader maximo Dumont ruppe, proprio sulla politica agricola di monocultura dello zucchero adottata a Cuba, come con Lèopold Sedar Senghor, il presidente poeta del Senegal, sulla questione, anche qui, di una monocultura devastante, l’arachide. Più tardi fu Senghor che richiamò Dumont per riconoscere il suo errore, e Julius Nyerere, il presidente del socialismo dei villaggi ujamaa, in Tanzania, quando i paesi dell’Afrique Occidentale Française misero al bando i suoi scritti, lo accolse e obbligò la lettura di quegli stessi studi in tutti gli istituti agrari del paese. Renè Dumont fu ispiratore di presidenti illuminati come Thomas Sankara, il capitano assassinato troppo presto del Burkina Faso.

È STATO L’AGRONOMO nel contempo più celebrato e più cacciato del novecento. A Milano, invitato alla Facoltà di Agraria, per presentare un suo libro, Un mondo intollerabile (Eleuthera), meravigliò e affascinò gli studenti. A ottantasette anni, vigoroso e lucidissimo, raccontava di vangare di persona il suo campo. Era il 5 aprile 1990, già allora spiegava come e perché l’Africa fosse il continente cruciale per la storia dell’umanità. Come l’avanzare del deserto, congiunto con la sovrappopolazione, finiva per concentrare la pressione demografica nelle città, destinate a scoppiare. Tutto questo per colpa delle monocolture. Insisteva sul ruolo dell’educazione, che doveva mirare a liberare la donna africana dal suo fardello. Citava quello che alcune giovani senegalesi gli avevano detto, sorridendo: «Se la nostra testa fosse liberata dal portare pesi, forse potrebbe pensare a qualcos’altro».

RENÈ DUMONT PENSAVA IN MANIERA COMPLESSA, tutto connettendo e comprendendo. L’Africa strangolata, L’utopia o la morte, Agronome de la faim, Paysans ècrasès. Terres massacrèes, sono alcuni titoli di una serie interminabile di suoi libri. Da scienziato, furono dure le sue critiche a Pierre Rabhi, celebrato cantore della terra, che in Burkina Faso, giustamente esaltando le virtù del compost, tuttavia irrideva quelle del letame e dei macerati. Da politico, accettò la candidatura per i Verdi francesi, sapendo di non avere possibilità alcuna di essere eletto, alle elezioni presidenziali del 1974. Pochi minuti di una sobrietà e lucidità assoluti, nel corso dei quali denunciò lo sfruttamento dei paesi del Terzo mondo, l’inquinamento dei fiumi e dei mari, il consumo spropositato di petrolio. Rivendicò, contestando chi lo trattava da «candidato bizzarro», la sua vita da insegnante all’Ina, l’Istituto nazionale d’agronomia, le sue oltre venti opere apparse e distribuite nel mondo, e per finire mostrò un bicchiere d’acqua e lo bevve, dicendo: «L’acqua è un bene prezioso, proteggiamolo, è sulla via della sparizione».

FU UN SOCIALISTA, ai tempi della presidenza di Mitterrand venne chiamato a ricoprire un ruolo importante presso il ministero dell’agricoltura, ma non vi restò molto, non potendo far valere le sue idee in quel campo che conosceva come pochi. In un mondo diviso in blocchi, tra occidente e campo filosovietico, non fece sconti a nessuno. Il suo focus privilegiato, la terra e i contadini, gli indicavano che ambedue i sistemi erano fallaci e devastanti. Né la collettivizzazione forzata e nemmeno la rapina delle terre praticata nel campo capitalista erano la soluzione. Si sforzò di immaginare una terza via. Il suo essere stato vicino agli ecologisti, ai pacifisti, agli altermondialisti, gli faceva, all’infinito, sperare e lo raccomandava, in una unione di tutti questi soggetti. Una delle sue ultime interviste, una sorta di omaggio alla vita di quest’uomo che all’età di ottant’anni scriveva «Je n’ai jamais cessè d’etre un rèvoltè» («non ho mai smesso d’essere un ribelle»), dopo una vita dedicata ai contadini e alla terra, si schermiva e affermava: «Avrei voluto fare di più».

BASTA PRENDERE UNO DEI SUOI LIBRI in mano e leggere per capire che la terra e la sua fertilità sono connesse strettamente con la libertà dei contadini. Che il suo avere girato l’Africa, averla profondamente compresa, ci dice che per evitare il depauperamento di vite umane scappate attraverso il deserto, è quel deserto avanzante che bisogna fermare. Come? Sostenendo un modello di cultura agricola differente. Liberando le donne dei villaggi dal loro fardello, spendendo per piccoli progetti su piccola scala, ascoltando le popolazioni locali. Esistono esempi di buone pratiche. Cominciamo con «una scuola, un pozzo, un orto in ogni villaggio» come era nel progetto di Thomas Sankara, e, come nelle speranze di Renè Dumont, fermeremo non solo il deserto ma anche tanta ignoranza e indifferenza razzista che dilaga, sulle nostre sponde e nelle nostre teste.