«Come si erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? E che ve ne importa? Da dove venivano? Dal luogo più vicino». La fotografia riprodotta in questa pagina – che vede al centro, in primo piano, il «dio della danza» Vaslav Nijinsky, affiancato dalla sorella, la ballerina Bronislava Nijinska, e dal compositore Maurice Ravel – consente di dare risposte meno beffarde agli interrogativi che Diderot piazzava all’inizio di Jacques le fataliste. Dal momento che la data dell’incontro è il 1914, è possibile che i tre artisti si trovino sul terrazzo dell’appartamento di Avenue Carnot a Parigi, scelto in quel periodo da Ravel come residenza, anche in virtù della sua «vista magnifica» su Place de l’Étoile. Ma per comprendere i retroscena e il valore dell’incontro, è necessario fare un passo indietro fino al 1909, anno in cui il musicista aveva iniziato a lavorare a Daphnis et Chloé, il balletto da lui stesso definito, in un’intervista del 1926, come una delle sue opere più importanti.

Un uomo in ghingheri
A commissionare a Ravel la musica di Daphnis era stato Sergej Djagilev, l’impresario che aveva trascinato da San Pietroburgo a Parigi i fratelli Nijinsky, riuscendo a fare di Vaslav non solo il proprio amante, ma anche la stella indiscussa della compagnia dei Ballets Russes. Se tuttavia Nijinsky nel 1909 era già stato idolatrato dalla stampa come «la meraviglia delle meraviglie», Ravel, ancora lontano dalla fama, si faceva notare più che altro per la sua personalità elitaria. A trentacinque anni il compositore incarnava già il personaggio dall’abbigliamento ricercato e dalla conversazione intelligente che Jean Echenoz ha dipinto, nel suo breve romanzo Ravel, come un uomo «in ghingheri ventiquattr’ore su ventiquattro», ma soprattutto come un intellettuale determinato a coltivare, nel suo «raffinato distacco», precise idee musicali.

Non è un caso se questo dandy dall’ironia tagliente, che secondo Erik Satie teneva tutti a distanza con il suo «preziosismo» snobistico, dichiarò che il «più bel trattato di composizione» era per lui rappresentato dalla Genesi di una poesia, dove Edgar Allan Poe mette a nudo i meccanismi segreti della propria arte. A differenza di altri, Ravel concepiva la musica non come espressione di sentimenti dettati dall’ispirazione, bensì come un congegno a orologeria che il compositore progetta, con la precisione di un «buon artigiano» o di un ingegnere, nell’architettura delle forme prima che nei temi e nei contenuti. Oltre a puntare alla «perfezione tecnica», ogni brano doveva costituire, in questa prospettiva, una sfida sperimentale destinata all’innovazione del gusto, perché il «genio – secondo Ravel – è ciò che porta qualcosa di nuovo».

Con la «sinfonia coreografica» di Daphnis et Chloé – come si legge in uno Schizzo autobiografico del 1926 – Ravel non intendeva limitarsi a un «vasto affresco musicale» che riportasse in vita «la Grecia dei suoi sogni», ma si proponeva per l’appunto di svecchiare il repertorio del balletto attraverso un’opera «costruita sinfonicamente», su un «piano tonale» rigoroso. Anche per questo motivo non si lasciò sfuggire l’invito di Djagilev, che da una parte, grazie alla presenza dell’étoile Nijinsky, gli assicurava l’attenzione di tutta Parigi, mentre dall’altra, con il marchio dei Ballets Russes, offriva una garanzia di qualità. Erano stati infatti i «maestri coreografi» venuti da Mosca e San Pietroburgo – osservò Ravel in un articolo dedicato allo stesso Nijinsky – a rianimare «l’arte della danza», fossilizzatasi ormai da mezzo secolo in un «coacervo di luoghi comuni» indegni di attenzione.
Arma a doppio taglio
Date queste premesse, i problemi che a partire dal 1910 si accanirono sulla creazione di Daphnis risultano sconcertanti. A intralciare i lavori non fu soltanto l’insoddisfazione del compositore, che tardò più di un anno a rimaneggiare la prima partitura finché non ebbe escogitato un finale all’altezza dell’opera. Ravel si accorse ben presto che il balletto è un meccanismo multiplo ad alta complessità, dove il musicista, non più sovrano, deve mettersi al servizio di un’arte legata al corpo, senza mai dimenticare le esigenze di ballerini, coreografi e impresari. E se Djagilev sotto questo aspetto aveva trovato lo spartito di Daphnis inadatto alla danza, il coreografo designato Michail Fokin, fin dalla stesura dello scenario del balletto, non smise per un istante di tormentare Ravel con le sue lamentele.
Solo Nijinsky, che a detta di Richard Strauss andava in cerca della musica «meno ballabile del mondo», avrebbe potuto rappresentare il prezioso alleato di cui Ravel aveva bisogno. Eppure l’arte del danzatore, che nel 1911 era tornato a soggiogare Parigi con le sue sensuali e avanguardistiche apparizioni nello Spectre de la rose e in Petruška, era destinata a rivelarsi un’arma a doppio taglio.

Niente, a dire il vero, sembrava più distante da Ravel del selvaggio Nijinsky, che in società finiva sempre per apparire come un «monello di strada» incapace di sostenere la più banale conversazione. I Memoirs di Bronislava, che nella fotografia si staglia alle spalle del fratello come un’ombra protettiva, ci informano a questo proposito sull’esistenza di «due Nijinsky». Da una parte Vaslav, il ventenne ingenuo che Djagilev, per timore delle sue continue gaffes, condannava al silenzio in pubblico; dall’altra il sublime Nijinsky, che sul palcoscenico, in una prodigiosa metamorfosi, sapeva stregare con la complessità dei suoi passi da virtuoso e l’elevazione sovrumana dei suoi salti. Per conservare il titolo di «dio della danza», in precedenza concesso dal pubblico solo al grande Vestris, Vaslav era costretto a immolare la propria vita dedicandosi a martirizzanti sessioni di prove ed esercizi.

Danzare – scrisse Nijinsky nel suo tormentato Diario del 1918 – significa unirsi a Dio in un «matrimonio» d’amore che impone il culto mistico della perfezione. Ed è proprio nell’esaltazione di questo culto che comincia a farsi strada un «terzo Nijinsky», pronto a ripercuotersi su Ravel con le manie del suo fanatismo.
Non appena cominciò a lavorare insieme a Bronislava alle coreografie dell’Après-midi d’un faune di Debussy, Nijinsky manifestò il carattere di una divinità tirannica. Le prove del Faune coincidevano, secondo il pittore Larionov, con «esperimenti di laboratorio in movimento» dove il coreografo, attraverso un minuzioso assemblaggio di pose plastiche, impiegava ore nel costruire passi «scultorei», spesso sganciati o in controtempo rispetto al ritmo musicale. Furono necessarie novanta sessioni per costringere la compagnia dei Ballets Russes ad assimilare alla perfezione i nove minuti di quella performance, che con i suoi passaggi «di profilo», senza salti né pirouettes, rappresentava secondo Bronislava una «colossale novità».
Il risultato, ad ogni modo, fu lo scandalo che esplose nel maggio del 1912, quando l’interprete e coreografo Nijinsky nelle vesti del Fauno, non contento di aver mandato in pezzi le regole della danza, simulò una fulminea masturbazione in scena.

Poco di cui stupirsi, dunque, se alcuni giorni dopo, alla prima di Daphnis et Chloé, Ravel si presentò in ritardo, quando lo spettacolo era già avviato. Troppe erano state le incomprensioni a margine di un balletto che si era visto sottrarre fondi, repliche e attenzioni dal Faune di Nijinsky. Il congegno che Ravel aveva progettato con zelo puntiglioso aveva finito per smagliarsi in una collaborazione non fallimentare, ma imperfetta. Eppure, la partitura di Daphnis restava – a detta di Stravinskij – «uno dei più bei prodotti dell’intera musica francese». E nemmeno «l’esaurimento nervoso» che Ravel assicurò di aver scontato dopo la lavorazione del balletto gli avrebbe impedito di rimanere fra gli ammiratori dei fratelli Nijinsky. Quando infatti Vaslav nel 1913 sollevò un nuovo scandalo con le avanguardistiche coreografie del Sacre du printemps, lo stesso Stravinskij, autore della sovversiva partitura, lo accusò di non aver assimilato a dovere la sua musica, mentre Ravel insorse in sua difesa, elogiandolo per aver raggiunto l’intima «collaborazione fra musicista e coreografo» mancata a Daphnis.
Quanto a Bronislava Nijinska, la sua affermazione è datata 1928, anno in cui all’Opéra national di Parigi vide la luce un nuovo balletto di Ravel: il Boléro. La prima coreografia del brano, commissionato dall’eccentrica artista Ida Rubinštejn, venne affidata proprio a Bronislava, che dal 1922, dopo aver abbandonato la carriera di ballerina, aveva fatto valere il proprio talento di maestra e coreografa con gli allestimenti delle partiture di Stravinskij Renard e Les Noces. A differenza del fratello, la Nijinska non riuscì tuttavia a meritare la piena approvazione di Ravel, che all’amico Roger Haour scrisse di aver trovato la realizzazione coreografica «riuscitissima ma pittoresca: cosa questa inopportuna».

Ancora una volta, il dispositivo musicale architettato da Ravel si era scoperto vittima di una collaborazione imperfetta. Il problema è che la coreografa aveva fatto danzare Ida Rubinštejn su una sorta di tavolo da osteria, circondato da avventori in adorazione: uno scenario troppo gitano e folcloristico, inadatto a quella melodia che al contrario – dichiarerà Ravel in un’intervista al musicologo Calvocoressi – voleva risultare un esperimento in «direzione particolarissima» e prevedeva, come tale, una «tessitura orchestrale» dai temi «del tutto impersonali».

Prima di Béjart
Con il suo sistema di opposizioni binarie e di ritmi ossessivi – ha scritto Lévi-Strauss nel suo L’uomo nudo, – il Boléro racconta la storia di uno scontro fra princípi di carattere ancestrale, che non tollera eccessive contaminazioni con la realtà. Bisognerà aspettare la coreografia di Maurice Béjart perché la partitura trovi adeguati agenti immunizzanti da tentazioni popolaresche: pur mantenendo intatta la scenografia progettata da Bronislava Nijinska, Béjart riporterà infatti la danza del Boléro alla sua dimensione astratta, per incoraggiare quella «regressione verso un orizzonte primitivo» che è racchiusa, secondo Enzo Restagno, nei «sortilegi timbrici» e nella «configurazione» della melodia.

Tanto il Boléro quanto Daphnis et Chloé sono sopravvissuti nel tempo come brani musicali indipendenti dal palcoscenico del balletto. L’incontro fra Ravel e i fratelli Nijinsky non fu dunque il motore scatenante e decisivo della creazione. Fu, invece, una sua pericolosa conseguenza. Costituì, a tutti gli effetti, un modello di collaborazione più volte mancata, che con le sue divergenze di prospettiva non smise di mettere a repentaglio l’integrità dei progetti musicali di Ravel, senza peraltro innescare quegli sviluppi rivoluzionari nel campo della danza a cui Nijinsky e la sorella si erano dedicati. Anche un incontro tanto saturo di insidie, ad ogni modo, può provare come l’arte riesca talvolta a non lasciarsi scalfire né distruggere dalle trappole della vita.