«Quella che vedrai è una città imponente, che si distende sul fianco di una petrosa collina, superba d’uomini e mura e che già nel suo aspetto dice come sia signora del mare»: così Francesco Petrarca descriveva Genova e l’appellativo «superba» è rimasto a identificare in età moderna la potente Repubblica genovese, al centro di una vasta rete commerciale, la cui estensione territoriale, dall’Italia meridionale alla penisola iberica fino alle Fiandre, venne quasi a coincidere con i possedimenti della monarchia spagnola. Le attività mercantili della Repubblica si concentrarono inizialmente sulla produzione e sul commercio dei tessili, per spostarsi poi con decisione sulla movimentazione di denaro e sui prestiti. A titolo di esempio, tra il 1621 e il 1626 i banchieri genovesi erano creditori del 76% del debito pubblico spagnolo: una fredda percentuale che suggerisce con immediatezza la forza economica e politica della città. Era una ricchezza che le famiglie reinvestirono in beni fondiari, in argenterie, in opere d’arte, nella costruzione e nella decorazione di palazzi, ville e chiese.

Questo è il contesto storico che fa da sfondo al racconto della cultura figurativa del Seicento genovese nella mostra Superbarocco Arte a Genova da Rubens a Magnasco, aperta fino al 3 luglio, curata da Jonathan Bober, Piero Boccardo e Franco Boggero, organizzata dalle Scuderie del Quirinale con la National Gallery di Washington e in collaborazione con il Comune di Genova. Il progetto era in origine più complesso. La mostra romana era stata pensata in dialogo con l’iniziativa espositiva programmata a Washington, annullata dalla pandemia, e di cui resta come testimonianza del lavoro condotto il catalogo pubblicato nel 2020 (A Superb Baroque. Art in Genoa 1600-1750).

La lunga linea temporale scelta dai curatori è esemplificata nella mostra romana dal richiamo a due artisti, Peter Paul Rubens e Alessandro Magnasco: l’avvio è segnato dal passaggio genovese, tra il 1604 e il 1607, del pittore fiammingo, denso di conseguenze per le successive generazioni, mentre Magnasco, morto nel 1749, è il termine ultimo di una lunga e libera stagione figurativa la cui fine è simbolicamente segnata dalla fondazione nel 1751 della prima ufficiale accademia d’arte cittadina.

Scorrono nelle sale delle Scuderie centotrenta opere, tra dipinti, sculture, argenti e disegni, una presentazione spettacolare, e coraggiosa, della cultura figurativa di una città, di una scuola pittorica, sicuramente ancora poco familiare al grande pubblico e che solo negli ultimi anni si è conquistata un piccolo spazio nei manuali scolastici. I curatori delineano la fisionomia della scuola genovese per capitoli cronologici e accorpamenti tematici, ed è l’alta qualità delle opere, scelta rivendicata in apertura del catalogo (Skira), a dare forza e immediatezza alla loro sintesi critica.

Genova all’avvio del Seicento è soprattutto importatrice di pittura: a fronte di un contesto locale sguarnito, la città, con una molteplicità di poli di committenza, accoglie un articolato composto di esperienze «forestiere», Rubens, opere e artisti dalla Toscana e da Milano, arrivi caravaggeschi. Un ruolo di primo piano è svolto da Giovanni Carlo Doria, uno dei più grandi collezionisti del Nord Italia ad avvio del Seicento, ed è il suo roboante ritratto eseguito da Rubens nel 1606, vero anticipo barocco, ad accogliere i visitatori. L’incredibile collezione di Gio Carlo Doria contava quasi settecento opere, e tra queste una sessantina di tele di Giulio Cesare Procaccini, figura cruciale per la prima metà del Seicento a Genova. È il pittore lombardo a indirizzare lo sguardo degli artisti genovesi verso Correggio e Parmigianino ed è a lui che si deve una precoce e intelligente comprensione della rivoluzionaria pittura di Rubens.

Su questi fatti, sintetizzati nella sala introduttiva della mostra, nasce e matura, a partire dal secondo decennio del Seicento, una nuova generazione di pittori: i protagonisti sono i genovesi Bernardo Strozzi, Andrea Ansaldo e Gioacchino Assereto, «amici dei milanesi dopo esserlo stati dei toscani, anzi facendo un composto dei due», citando la formula elaborata da Roberto Longhi nei suoi preziosi appunti su Genova pittrice annotati durante la visita alla mostra sulla pittura genovese del Seicento, curata a Genova da Orlando Grosso nel 1938.

La selezione delle opere della mostra mette il visitatore davanti alla complessità dei contesti figurativi, alla convivenza di novità, ritardi, fughe in avanti, episodi isolati ed eccentrici. Tuttavia nel groviglio di voci, emergono con forza i protagonisti, primo fra tutti Giovanni Benedetto Castiglione, qui nella duplice veste di pittore di scene di genere (categoria che gli sta evidentemente un po’ stretta) e di grandi pale sacre. La sua meravigliosa Adorazione dei Pastori della chiesa di San Luca, datata 1645, data capitale per la periodizzazione del barocco genovese, è una sintesi perfetta tra la sua formazione genovese, che parte dall’avanguardia di Van Dyck (a cui i curatori dedicano una bellissima selezione di opere), e l’esperienza romana, tra il movimento neo-veneziano capeggiato da Poussin, e Bernini. È lui «il primo vero barocco della città» (ancora una volta torno agli appunti di Longhi), ed è una delle componenti, con Valerio Castello e con lo scultore di origine francese, ma di formazione romana, Pierre Puget, alle radici del «barocco superbo», titolo significativo della sezione che presenta Domenico Piola, Gregorio De Ferrari e Filippo Parodi e vero cuore della mostra.

È all’interno dell’impresa familiare di Casa Piola che si sviluppa la più vigorosa declinazione del barocco genovese, in un dialogo del tutto originale con Roma e con Bernini. Nelle sale si potrà godere del confronto diretto tra pittura e scultura: è perfetta l’intesa tra la pittura di Gregorio De Ferrari e la resa morbida e vitale del modellato delle sculture di Filippo Parodi, quasi una traduzione genovese del dialogo romano tra Bernini e Gaulli.

Attraverso i disegni e i bozzetti si può recuperare la ricchezza decorativa degli interni dei palazzi e delle chiese, sigla distintiva del «superbo barocco» genovese, e in particolare della fantasia festosamente decorativa e coloristica di Gregorio e delle sue invenzioni, dove il passaggio senza interruzioni tra pittura ed elementi plastici rende l’illusionistica decorazione dei soffitti quasi materia viva.

Il concorso del 1700 per la decorazione delle sale del Palazzo Ducale segna una cesura nella storia figurativa della città. La scelta cade, infatti, su artisti «forestieri», l’emiliano Marcantonio Franceschini e il napoletano Francesco Solimena. A livello locale, nel passaggio generazionale di padre in figlio, con Domenico Parodi, Paolo Gerolamo Piola e Lorenzo De Ferrari, l’impeto vitale della pittura genovese si raffredda orientandosi verso il classicismo emiliano, gli insegnamenti romani di Carlo Maratta e i modelli francesi, un indirizzo di gusto certo favorito dai nuovi orientamenti politici della Repubblica.

Unica eccezione è quella di Alessandro Magnasco, pittore anticonformista, a cui la mostra dedica la bella sala di chiusura che ruota intorno alla tela con il Trattenimento in un giardino di Albaro (Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco). La sprezzante, veloce pennellata di Magnasco fa riavvolgere il nastro del racconto, riportando il visitatore alla pittura di tocco di Giulio Cesare Procaccini e di Valerio Castello e alla stesura sfaldata e carica di colore della maturità di Castiglione, una libertà che ora, a un secolo di distanza, trasmette il senso di inquietudine e precarietà di una città ormai in declino.