Che città strana, Rende. Borgo di quarantamila anime adagiato a oriente del fiume Crati, non ha quasi mai vissuto di luce propria, bensì riflessa. Il rapporto di attrazione e repulsione con la limitanea Cosenza trova la metafora migliore nel lungo viale che avrebbe dovuto unirle. Dedicato ai rispettivi patriarchi politici del novecento, i socialisti Cecchino Principe e Giacomo Mancini, il boulevard s’interrompe all’altezza del confine amministrativo tra i due Comuni. In mezzo scorre un fiumiciattolo. Ma, quasi a voler segnare il distacco, nessuno ha mai pensato di costruirci sopra un ponte che colleghi i due tronconi del viale.

Considerata da molti un’appendice periferica del capoluogo Cosenza, Rende rimane legata a filo doppio alla città bruzia. Nel bene e nel male. Non soltanto per l’università di Arcavacata, con i suoi cubi color rosso mattone e col più grande campus universitario in Italia, ma anche per gli scandali e le infiltrazioni mafia-politica susseguitisi in questi anni. Che hanno portato alle dimissioni del sindaco e all’insediamento della commissione d’accesso.

Le cosche di Cosenza avrebbero egemonizzato il comune rendese – a detta della procura antimafia – gestendo settori importanti, dal servizio mensa alla concessione del bar. Gli appalti sarebbero stati affidati a imprese che vedono apparire, come soci e lavoratori, i familiari e i sodali del clan Lanzino tra cui la figlia della compagna di Ettaruzzo Lanzino, capo indiscusso dell’omonima ‘ndrina, e Michele Di Puppo, elemento apicale a cui due politici, l’ex sindaco, Umberto Bernaudo e il consigliere provinciale, Pietro Ruffolo, entrambi del Pd, avrebbero fornito agevolazioni per la costituzione di una società in house. Che avrebbe rappresentato un serbatoio di occupazione (e di voti) per picciotti e mammasantissima. Al momento sono ipotesi che la magistratura dovrà verificare. Però le ombre su Rende permangono anche dopo il recente decreto con cui il ministro dell’Interno Alfano ha stabilito che il Comune non sarà sciolto.

Metro leggera, danni pesanti
Che città strana, Rende. Legata a filo doppio a Cosenza da un progetto di metropolitana da molti ritenuta inutile, a rischio, e sovradimensionata. Decine di milioni serviranno solo per aprire il cantiere della “Metropolitana leggera Cosenza-Rende”. Una barca di soldi che, con ogni probabilità, affonderà nella palude degli sprechi, in una regione travolta da un disastro delle infrastrutture sotto gli occhi di tutti. «Il degrado delle ferrovie è opprimente – sottolinea Mimmo Gattuso, docente di Trasporti all’università di Reggio – eppure sembra passare inosservato. Basta prendere un treno lungo la linea jonica. Le stazioni, un tempo luoghi di vita sociale, oggi sono degradate, assediate da erbacce, senza obliteratrici, biglietterie, servizi igienici, fontanelle. Uno scempio che dissuade i cittadini dall’uso del treno, per non dire dei turisti o viaggiatori occasionali». Una politica dei trasporti mortificante, che umilia tutto un popolo. «In due anni sono stati soppressi una ventina di treni a lunga percorrenza in nome di un falso efficientismo, sono stati chiusi 41 km di linea della piana di Gioia Tauro, permane da un lustro una frana che ha tagliato le relazioni ferroviarie tra Catanzaro e Cosenza, ci sono voluti 16 mesi per ripristinare un ponte a Marcellinara che univa la costa tirrenica e quella jonica, è stato tolto il servizio ferroviario tra Calabria e Puglia, sostituendo i treni con bus. E sono stati cancellati gli scali merci di Cosenza, Lamezia e Villa San Giovanni».

Basterebbe poco per cambiare registro. Una serie di “piccole” opere per abbandonare una situazione da terzo mondo, un «trasporto equo sostenibile», per dirla come Gattuso. E invece tutto è fermo, tranne le solite cattedrali nel deserto. Come la metro Cosenza-Rende. «È in realtà una tranvia – precisa Gattuso – ma assolutamente sovradimensionata, con tempi di costruzione che lieviteranno rispetto alle previsioni. Il progetto stride con la domanda di mobilità dell’area (38 mila utenti nel 2014, 48 mila nel 2020, 2500 passeggeri nell’ora di punta). Una linea di tram efficiente e remunerativa si giustifica con flussi maggiori (200 mila passeggeri e 10 mila utenti nell’ora di punta). La debole domanda di mobilità stimata si ripercuote nello scarso numero di veicoli in cantiere, una decina, e nella frequenza, una corsa ogni 20 minuti». Gli fa eco Mario Bozzo, uno dei promotori del comitato Nometro: «Il progetto si basa su dati inattendibili. Persino la cifra di 40mila viaggiatori è irrealistica. La metro sarebbe periferica rispetto alla maggioranza della popolazione».

Indignato Pino Iacino, sindaco negli anni Settanta: «E’ un intervento che porta più danni che benefici. E un chiaro caso di devastazione urbanistica. Gli amministratori avrebbero l’obbligo di consultare un comitato scientifico di alto livello, invece di basarsi su dati fantasmagorici. È fuori dalla realtà la stima di 40mila viaggiatori su una popolazione di 120mila. La nostra valutazione è di 5mila. Costi di gestione incompatibili con gli introiti, deficit annuali che dovranno pagare i cittadini. Così si ipotecano anche i bilanci futuri degli enti locali». Insomma, un fallimento già prima del nascere. L’ennesimo polpettone di ferro e cemento che, dati i tempi di costruzione (7/8 anni), rischia di non essere nemmeno ultimato: i fondi previsti sono comunitari e richiedono che le opere programmate siano terminate entro il 2016.

La grande salsiccia
Cosenza si appresta così a essere sventrata dalla più costosa, inutile e dannosa opera pubblica mai realizzata nella sua storia, fortemente voluta dalle potenti famiglie politiche locali. È una salsiccia da 160 milioni che tanti vorrebbero arrostire sulla propria griglia. Entro dicembre è previsto lo start up della Regione. Eppure, forte è l’opposizione alla realizzazione della nuova infrastruttura. Contraria è una parte consistente della cittadinanza che sta trovando voce all’interno di un comitato spontaneo di recente formazione: «Devasterebbe viale Mancini – spiegano gli attivisti Nometro – ormai divenuto arteria pulsante della città. I cosentini vivono su questa strada, facendo jogging la sera, realizzando ogni anno la millenaria fiera di san Giuseppe, frequentando l’area liberata del parco sociale. Il viale diventerà invivibile, tagliato da binari, attraversato da rumorosi e invadenti vagoni».

In effetti, la città tornerebbe indietro di vent’anni. Il popoloso quartiere di via Popilia e tutta la zona est verrebbero di nuovo separati dal resto dell’area urbana. Chiare le proposte alternative del nascente comitato che sta per lanciare un flash mob per i prossimi giorni. Tutti insistono sulla necessità di rivalorizzare l’esistente. Visto che l’obiettivo è creare collegamenti migliori con l’università di Arcavacata, con la zona del Savuto e la Presila, sarebbe più giusto impiegare questi soldi pubblici per il ripristino della vecchia rete delle Ferrovie della Calabria, smantellate per privilegiare gli interessi delle ditte private. Una volta tagliati uomini e mezzi, si è consentito l’accaparramento, spesso illecito, delle vecchie stazioni, trasformate in dimore private, spesso rese inagibili dall’incuria. Calato l’oblio sulle antiche ferrovie, ne spunta già una nuova, di cui non c’è alcun bisogno. «Ma quei 160 milioni per la metro non li possiamo perdere». È la parola d’ordine scandita dalla famiglia Gentile, plenipotenziaria del berlusconismo bruzio, e da Sandro Principe, Signore incontrastato di Rende, rifluito nel Pd dopo l’eclissi socialista.

Fortemente contrario è invece il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, che considera il progetto «vetusto, per nulla funzionale, in quanto concepito decenni fa» quando il territorio presentava ben altre caratteristiche e vocazioni. Occhiuto propenderebbe per una soluzione su gomma, con un differente tracciato, rispettoso dello sviluppo urbano che la città sta assumendo. Ma dovrà fare i conti con equilibri che potrebbero sballottare la sua stessa Giunta. Le decisioni sul futuro di Cosenza si prendono tra Reggio Calabria e Rende.