Sul finire degli anni Sessanta la nuova stagione del noir, a cui Renato Venturelli dedica la splendida mappa «Cinema noir americano 1960-2020» edito da Einaudi (pp. 472, euro 30,00), s’inaugura con un gruppo di film – da «A sangue freddo» (Richard Brooks , 1967) a «Gangster Story» (Arthur Penn, 1967), da «Senza un attimo di tregua» (John Boorman, 1967) a «Lo strangolatore di Boston» (Richard Fleischer, 1968) – nei quali la brutalità della cronaca nera è raccontata con un linguaggio fortemente innovativo se non addirittura virtuosistico, che segna il passaggio dal classicismo hollywoodiano alla Nuova Hollywood. Se «Gangster Story» trionfa al botteghino e s’impone come una svolta nel cinema gangsteristico anche grazie alle febbrili performance di Warren Beatty e Faye Dunaway, «Senza un attimo di tregua» è un noir atipico, sempre in bilico tra presente e passato, verità e illusione, che seguendo l’ossessiva vendetta di Lee Marvin si muove nel territorio della più assoluta precarietà, tra i dintorni di Los Angeles e la prigione abbandonata di Alcatraz.

All’inizio dei Settanta l’iperrealismo visionario di «Il braccio violento della legge» (William Friedkin, 1971) recupera l’immaginario urbano dei piccoli bar e dei capannoni di periferia, dove Gene Hackman – brutale, violento, intollerante – cova la rabbia nevrotica di chi combatte ogni giorno una guerra fatta di snervanti attese e di adrenalinici inseguimenti. Quando all’inizio di«Chi ucciderà Charley Varrick?» (Don Siegel, 1973) la piccola città di provincia si risveglia non sappiamo ancora che Walter Matthau, l’ultimo degli indipendenti, si prepara a rapinare la banca dove la mafia ricicla il denaro sporco. Beccato dai killer, si salva montando un’abile messinscena per beffare l’Organizzazione, ma senza l’humour sarcastico del protagonista solo contro tutti, il piano non andrebbe a segno.

«Chinatown» (Roman Polanski, 1974), in cui Jack Nicholson col naso ammaccato fronteggia il patriarca incestuoso John Huston, segna il cortocircuito tra le origini del genere e l’universo capitalistico del male, quasi la psicoanalisi del noir classico. «L’anno del dragone» (Michael Cimino, 1985) è un film di eccitante potenza visiva che contrappone Mickey Rourke, impegnato in una guerra personale contro le triadi, e John Lone, il boss emergente della malavita cinese, nella Chinatown ambigua e claustrofobica. «Velluto blu» (David Lynch, 1986) s’immerge nell’universo notturno, tra eros e violenza, rivisitando gli stereotipi più ricorrenti, mentre l’inconscio dei protagonisti rivela «il sogno di bizzarri desideri». «Black Rain-Pioggia sporca» (Ridley Scott, 1989) nella trasferta a Osaka dei poliziotti Michael Douglas e Andy Garcia coglie l’occasione per farci penetrare in un Giappone incubico, sotterraneo, indecifrabile. «Affari sporchi »(Mike Figgis, 1990) è la singolare radiografia di un Richard Gere più che mai sordido e insieme seducente, in cui gli «affari interni» indagano non tanto sui comportamenti ma piuttosto sulle zone oscure della coscienza. Negli anni Novanta costeggiano il noir anche Abel Ferrara e Brian De Palma, ma nessuno riesce come Martin Scorsese a integrare le trasgressioni europee nelle strategie del cinema americano con film esemplari come «Quei bravi ragazzi »(1990), che coglie con partecipazione personale e sguardo antropologico la quotidianità mafiosa in tutta la sua ferocia, e «Casinò» (1995), ambizioso affresco della società capitalistica, dove la vertigine dello sguardo prevale sulla stratificazione dei diversi piani narrativi.

Nello stesso periodo Quentin Tarantino inaugura la rivoluzione pulp con «Pulp Fiction» (1994), che sconvolge i paradigmi del noir con l’incastro paradossale dei piani temporali, radicalizza l’uso della violenza e dell’effettistica dell’exploitation, puntando sull’eccesso e la velocità. «Fargo» (Joel e Ethan Coen, 1995) è un’immersione senza sconti negli orrori della provincia americana, in cui il distacco dell’ironia sarcastica verifica ancora una volta l’imperscrutabilità delle pulsioni umane, cogliendo i meccanismi del caso e dell’assurdo attraverso i quali trionfa inesorabilmente la stupidità del male. In un momento come l’attuale, in cui il cinema di genere sembra in larga parte finire in tv o sul web, sono particolarmente interessanti figure liminari come Paul Schrader, che torna al noir con «Cane mangia cane »(2016), da un romanzo di Edward Bunker, collocandosi ai margini dell’industria nel segno della sperimentazione più azzardata, e Walter Hill, che in «Nemesi »(2016) gira in uno stile strepitosamente visionario una storia folle in cui la specialista in chirurgia plastica Sigourney Weaver trasforma in donna il protagonista. Quanto a Martin Scorsese non esita a rivolgersi a Netflix per raccontare con «The Irishman» (2019) il cupo finale dell’epopea in nero di Robert De Niro, il killer irlandese a servizio della mafia, e dell’amico Joe Pesci, giunti ormai al capolinea.