Renata Pepicelli insegna storia dei paesi islamici all’università di Pisa. Ha studiato percorsi di vita e attivismo di giovani musulmane e musulmani in Italia ed è autrice di diversi libri, tra cui Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme.

Se Saman Abbas è stata uccisa è un delitto d’onore legato alla cultura islamica o un femminicidio?

Un femminicidio da inscrivere in questa enorme ondata di violenza che attraversa nazioni, culture e religioni e si riversa contro le donne che scelgono di ribellarsi a chi vuole controllare le loro vite. Dopo questa premessa possiamo discutere le caratteristiche di questo probabile femminicidio, avvenuto in un contesto musulmano. Se guardiamo il Corano vediamo che l’islam non difende i matrimoni forzati. Anzi, troviamo riferimenti espliciti sia nel testo sacro che in alcuni hadith di rifiuto di questa pratica. Lo testimonia anche la fatwa emessa dall’Ucoii con l’associazione italiana degli imam in cui si afferma che i matrimoni forzati sono pratiche tribali.

Le dinamiche legate ai matrimoni forzati hanno delle specificità nei contesti migratori?

Qui le donne sono spesso considerate rappresentanti di una comunità idealizzata e astratta, depositarie di una cultura percepita come immobile. Letteratura e testimonianze di vita riportano un inasprimento di pratiche e discorsi patriarcali in contesti migratori volti a limitare la vita delle donne, spesso in maniera maggiore che nei Paesi di origine.

Che significa etnicizzare i crimini?

La tendenza a ricondurli a determinate culture: islamica o, stavolta, pakistana. È fuorviante. Si dimostra di non conoscere il contesto. È vero che in Pakistan esistono casi di matrimoni forzati o delitti d’onore, ma sono illegali. Il Pakistan è un Paese enorme, ha 216 milioni di abitanti. Ci sono grandi differenze tra città e campagne, nelle relazioni di potere, di classe. Etnicizzare i crimini serve a stigmatizzare alcune comunità. Non significa che in quei contesti non ci siano problemi, ma non si può generalizzare. Andrebbero invece cercati possibili campanelli di allarme.

C’è un conflitto tra universalismo dei diritti e relativismo culturale?

Se l’universalismo è inteso come i diritti costruiti intorno all’uomo bianco, occidentale e borghese, è in conflitto con un’idea di umanità universale ma capace di riconoscere le differenze. Su tutto chiaramente si impone la comune dignità umana.

Qualcuno sostiene che le femministe non si siano schierate su questa vicenda. È vero?

Non mi pare. C’è un dibattito estremamente ampio, con posizioni diverse e anche conflittuali. C’è chi insiste sulla dimensione culturale del contesto in cui si è consumato l’omicidio e chi cerca di porre la questione dentro la più generale violenza contro le donne, nel contesto del femminicidio come strumento per punire chi sceglie di autodeterminarsi. La retorica montata dalla destra è falsa. Si sono alzate tante voci in questi giorni, anche di donne figlie delle migrazioni che stanno prendendo parola in modo molto radicale. Penso a Sabika Shah Povia, Sumaya Abdel Qader, Marwa Mahmoud o Asmae Dachan.

L’accusa del silenzio si ripropone a ogni femminicidio in una comunità di migranti. Perché?

C’è un dibattito costruito per demonizzare le comunità musulmane. In questo tipo di narrazione, che impone i toni dello scontro di civiltà, fa gioco dire che le femministe siano silenti o abbiano un atteggiamento giustificatorio verso i cosiddetti crimini culturali o etnici. Non si può accettare di portare il movimento su questo discorso. Bisogna gridare la rabbia per questa vicenda rifiutando la retorica del “noi” contro di “loro”.

Il femminismo islamico è possibile o per essere femministe bisogna liberarsi dall’Islam?

Da almeno tre decenni nel mondo musulmano ci sono più correnti di femminismo. Una laica o secolare, che non ha la religione come orizzonte di emancipazione. Un’altra di matrice religiosa, che crede che l’uguaglianza di genere vada ricercata nell’islam. Questo femminismo sostiene che i testi sacri portino un messaggio di uguaglianza che è stato silenziato, nascosto e travisato da secoli di interpretazioni misogine e patriarcali. Ciò è avvenuto escludendo le donne dal lavoro interpretativo e di codificazione delle leggi, emarginandole dalla sfera pubblica e politica. Le femministe islamiche dicono che questo non ha nulla a che fare con l’islam e che rileggendo i testi si trovano strumenti di liberazione.