Tra qualche giorno la Corte costituzionale renderà nota la decisione, discussa in Camera di consiglio il 26 maggio scorso, riguardante gli atti rimessi dal Tribunale di Tivoli per il caso di un uomo condannato, dichiarato incapace di intendere e volere al momento del reato, che avrebbe dovuto essere ricoverato in una Residenza per l’esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) ma non ha trovato posto e sarebbe stato quindi costretto al carcere. Il giudice di Tivoli, Aldo Morgigni, ha chiesto alla Consulta di pronunciarsi sulla costituzionalità della legge istitutiva delle Rems nella parte in cui conferisce alle sole Regioni e alle Asl la competenza su queste strutture, lasciando fuori il Ministero di Giustizia, e nella parte in cui fissa a 20 il numero massimo di internati possibili in ciascuna Rems.

IL TRIBUNALE SI È RIVOLTO alla Corte costituzionale perché il Dap – che aveva il compito di individuare la struttura dove inserire un condannato che si rifiutava di sottoporsi a cure e per il quale perciò il giudice aveva disposto il ricovero in Rems senza passare per il carcere – non ha potuto fare nulla per trovare un posto. Secondo Morgigni, l’attesa per le liste d’attesa possono durare anche più di un anno e mezzo. E c’è il caso di una direttrice di un carcere romano sulla quale pende un procedimento penale conseguente al suicidio in carcere di un ragazzo detenuto ingiustamente da mesi in attesa della collocazione in Rems. L’atto di remissione di Tivoli spiega che il ricovero tramite Trattamento sanitario obbligatorio «trova fondamento costituzionale nell’articolo 32 della Costituzione, mentre la misure di sicurezza presso una Rems trovano giustificazione nei diritti di incolumità personale di terzi, diversi dall’infermo, negli articoli 2 e 25 della Costituzione, oltre che allo stesso 32». E siccome la misura, provvisoria, come in questo caso, «è sostanzialmente assimilabile alla esecuzione giudiziaria penale restrittiva della libertà personale», va affidata a chi ne è competente, «ovvero il ministero di Giustizia ai sensi dell’art. 110 della Costituzione». Infine, spiega il giudice, l’articolo 117 della Carta affida esclusivamente alle competenze dello Stato e non delle Regioni le materie di ordine, sicurezza e di giurisdizione.

SULLA STESSA MATERIA si attende, per la fine dell’estate, il pronunciamento definitivo (quello cautelare è dei primi di aprile) della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardo i casi di tre detenuti rimasti nelle carceri italiane ma che avrebbero dovuto essere trasferiti in questo tipo di Residenze istituite, grazie alla riforma operata con le leggi 9/2012 e 81/2014, in sostituzione degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Come si ricorderà, fu la commissione parlamentare di inchiesta sul Ssn istituita nel 2008 e presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino ad accendere i riflettori sugli orrori degli Opg e a portarli alla chiusura definitiva nel 2017.

Le 32 Rems italiane sono piccole strutture a vocazione riabilitativa e a esclusiva gestione sanitaria, e con la presenza della sola vigilanza esterna, quando si ritiene necessaria, affidata alle Prefetture. In alcune Rems è anche concesso agli internati di uscire e interagire con la popolazione locale. Nel tentativo di mettere fine ai cosiddetti «ergastoli bianchi», le norme introdotte nel 2014 prescrivono che la permanenza nelle strutture «non può durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso», calcolata sulla previsione edittale massima. E che «le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul territorio, dai Dipartimenti di salute mentale». Purtroppo però, come sappiamo, in molte regioni d’Italia l’efficacia – e a volte l’efficienza – dei Centri di salute mentale è davvero scarsa; il diritto alla cura e all’inclusione sociale non è garantito su tutto il territorio nazionale; il diritto alla salute è rispettato a macchia di leopardo, e la malattia mentale è ancora tabù. E poi, va registrata una certa burocratizzazione dei Centri di salute mentale. Anche per questo il ministro della Sanità Roberto Speranza ha organizzato, a vent’anni dalla prima, la Seconda Conferenza nazionale sulla salute mentale («Per una salute mentale di comunità»), a Roma i prossimi 25 e 26 giugno.

DALL’ENTRATA IN VIGORE della riforma, solo la Regione Campania, in collaborazione con l’Università di Torino, ha istituito un Sistema informativo per il Monitoraggio del superamento degli Opg (Smop) valido, in grado di raccogliere dati e monitorare il processo normativo che formalmente vorrebbe espandere le tutele degli autori di reato affetti da patologie psichiatriche. Secondo questo database, al 30 novembre 2020 i pazienti presenti in totale nelle Rems sono 551 (leggermente in diminuzione nell’anno del Coronavirus: nel 2018 erano 604); in lista d’attesa c’erano 185 persone, di cui il 20% circa in attesa presso gli istituti penitenziari. Sono perlopiù uomini (l’89%) e, mentre in carcere la popolazione straniera è circa un terzo del totale, nelle Rems si ferma ad un piccolo 14%. Perché? Perché è più difficile per un immigrato accedere al percorso di presa in carico da parte dei servizi sanitari, perché mancano i mediatori linguistici e culturali dentro le Rems, perché i posti sono a numero chiuso. Ai 20 letti imposti dalla legge, «fa eccezione solo Castiglione delle Stiviere (Lombardia) che ha trasformato l’Opg in un sistema modulare di Rems, anche con una sezione femminile, e contiene circa 160 persone», riferisce Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia che ha gestito come Commissario straordinario la chiusura degli Opg.

EPPURE, SPIEGA Michele Miravalle, professore di Diritto all’Università di Torino che ha contribuito alla ricerca Smop, «nessuna Rems è sovraffollata, mentre in carcere non è nemmeno immaginabile che un direttore si rifiuti di accettare un nuovo detenuto per mancanza di posti». Secondo Miravalle, quello delle Rems è un sistema che «tutto sommato regge»: «Negli Opg erano internate circa 1200 persone, con picchi di 1500, oggi c’è un rapporto di uno a sette circa tra i malati delle Rems e quelli che sono sul territorio, in libertà vigilata o ricoverati (la maggior parte) in comunità terapeutiche, luoghi del privato sociale con rette giornaliere che viaggiano attorno alle 300 euro». Poi, aggiunge Miravalle che fa parte anche dell’Osservatorio Antigone, «ci sono circa 700 persone che stanno in carcere e dovrebbero stare invece nelle Rems».

ANCHE «CHI ESCE dalle Residenze non torna mai alla libertà totale di trattamento, e starà sempre in qualche forma di istituzionalizzazione», afferma Miravalle. Nel rapporto si legge inoltre che «persone dimissibili (sia in ragione del percorso giuridico che sanitario) in realtà permangano in Rems più del dovuto per mancanza di alternative fuori. Questo, come vedremo, vale ancor di più per i cosiddetti cripto-imputabili, ossia quelle categorie di persone definite dagli operatori come particolarmente “difficili” da gestire, sia dentro che fuori dalla Rems». Dunque, se al 20 novembre 2020 «la durata media del ricovero in Rems è di 236 giorni, tre anni fa, nel 2017, era di 206 giorni», mentre, come ricorda Corleone, «sono misure provvisorie quelle riguardanti almeno il 40% dei ricoverati in Rems, e in ogni caso tra i capisaldi della legge 81/2014 c’è la transitorietà del ricovero nelle Residenze».

«MI HA COLPITO MOLTO nella piccola struttura femminile di Pontecorvo vedere le sbarre alle finestre e una donna nigeriana chiusa da sola in una cella. Quando ho chiesto il motivo mi hanno spiegato che le porte delle stanze sono generalmente aperte ma se il paziente vuole la chiude. Il problema è che per riaprirla occorre l’intervento esterno di un operatore. Che di solito è occupato, perché sono in pochi. La donna non parla italiano, non c’è traduttore e nessuno la capisce». A raccontare è Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa che a inizio pandemia ha già fatto il giro ispettivo di tutte le Rems e ne ha appena cominciato un altro. E dice: «Non sono luoghi di tortura me neppure di cura perché, esattamente come in carcere, mancano personale, dotazioni e attività adatte al reinserimento sociale». Per Corleone invece «funzionano», perché «quella riforma è stata una delle poche che non era a costo zero».

«Statisticamente la popolazione internata è marginale rispetto al quella detenuta», sottolinea ancora il progetto di ricerca Smop. Motivo per il quale «la sfida, operativa e politica, dovrebbe essere oggi quella di una tendenziale abolizione del “bisogno” di Rems. Da questo punto di vista, quello dei folli-rei, insieme a quello dei minori autori di reato, potrebbero diventare i primi due campi dell’esecuzione penale su cui sperimentare l’assenza di istituzioni totali contenitive».

IN QUESTA DIREZIONE va la proposta di legge 2939 depositata alla Camera l’11 marzo scorso dal deputato di +Europa Riccardo Magi e ispirata ad una precedente pdl di Corleone, attuale Coordinatore dei Garanti territoriali dei detenuti. Nel testo «si modificano le disposizioni relative al vizio totale e parziale di mente, abrogando l’articolo 88 del codice penale senza modificare la disciplina generale della non imputabilità e quella relativa all’imputabilità dei minori»; «si introduce l’attenuante per la disabilità psicosociale»; «si propone la riconversione delle Rems in strutture ad alta integrazione socio-sanitaria quali articolazioni dei dipartimenti di salute mentale». «Le norme che si introducono – si legge nella premessa – hanno, inoltre, un effetto anti istituzionale, in quanto nella prassi penitenziaria spesso la cura è utilizzata come strumento di repressione». E per rendere effettivo e celere l’interessamento del dipartimento di salute mentale, la pdl prevede che il giudice possa chiedere ai servizi di relazionare sulle condizioni di salute dell’imputato e di predisporre un programma individualizzato». E alla Camera giace anche un’altra pdl firmata dal Celeste D’Arrando (M5S) che prevede l’introduzione sperimentale di un «budget di salute» per la realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati.

Peccato che del Recovery fund solo un miliardo, dei 68, sarebbe stato allocato alla riqualificazione della rete dei servizi per le malattie mentali.