Nel celebre saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin afferma che i grandi narratori popolari sono in grado di approssimarsi quanto più possibile alla molteplice «voce degli infiniti narratori anonimi» che tramanda di bocca in bocca l’esperienza umana. Il narratore ha tratti antitetici: irrequieto, picaresco, liquido, oppure radicato in una solidità terragna, ctonio. A quest’ultimo gruppo appartiene Domenico Ruscitti, detto Mengo, testardamente attaccato al suo villaggio dell’Appennino Abruzzese e tuttavia costretto a morire, il 20 luglio 1969, notte dell’approdo umano sulla luna, a Villa Adriatica, in una casa di riposo dalla quale si ammira il mare. Fino ad allora il suo sguardo e le sue forze psichiche sono rivolti con ostinazione a ovest, verso la Rocca che gli ha dato i natali, tra le rocce dell’entroterra.

Con la morte del personaggio centrale, raccontata dal testimone Cippella Oreste, assistente della casa di riposo, comincia Cronache dalle terra di Scarciafratta (minimum fax, pp. 208, € 17,00), di Remo Rapino, raccolta di prosopopee di chi ha abitato il paese fino al violento terremoto (la «Cosa Brutta»).

A differenza del precedente Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax 2019), nel quale la voce narrante era presa in carico da un solo personaggio, l’indimenticabile «cocciamatta» Bonfiglio Liborio, nelle Cronache è una coralità di voci a raccontare le vicende paesane più insignificanti (le rivalità o i sodalizi personali, gli amori felici o infelici, le partenze e gli arrivi) che tuttavia sono la materia spuria e pulviscolare con la quale la Storia prende forma (gli emigranti micragnosi se ne vanno a combattere la Guerra civile spagnola, oppure a Marcinelle, arrostiti in miniera). Una materia fantasiosa, che non si preoccupa di esibire alcuna patente di realtà e anzi si fa forte del pensiero magico e confusivo tipico di un’antropologia contadina.

Già evidente nel primo romanzo di Rapino, l’originalità della lingua mescola italiano e dialetto abruzzese (opportuno il glossarietto in calce al testo) consentendo non solo una vivace modulazione popolare del tono lirico e del ritmo di molti brani, ma anche uno scandaglio nel linguaggio antico, risalente alla notte dei tempi in cui le parole lottavano con gli elementi della natura: «Dopo le parole vennero gli uomini. Alcuni iniziarono a cercare Dio, o qualcosa di simile, nella nebbia d’autunno, sugli argini scoscesi dei fiumi… Così ebbero inizio le storie». Storie che hanno – in bocca a Mengo e agli altri personaggi che ci parlano dalla terra, da sottoterra – la forma di «tutto un rotolamento di parole» e «di pensieri», un brontolio continuo e magmatico, in grado di riprodurre quella oralità che è andata persa insieme ai narratori popolari.

Così spazio e tempo scompaiono, poiché Mengo (capofila di quella bizzarra sfilata di anime), pur non avendo mai lasciato le terre di Scarciafratta, «era come se vivesse in mille altre contrade sotto mille altri cieli. Nei suoi occhi convivevano timori e visioni immaginarie del tempo…, e quel tempo aveva residenza nel suo sguardo, perso a volte per orizzonti solo suoi». I confini tra mondo naturale, uomini e parole si fanno così labili che in conclusione del testo la voce è ceduta alla Cosa Brutta: anche il terremoto dice la sua sull’immaginario paese di Scarciafratta.

La luna, cui è dedicato il monologo di Mengo, diventa allora un simbolo plurivoco, che annoda significati poetici e storici: non solo luogo di raccolta degli intelletti sensati (di cui sono privi quasi tutti i personaggi) e delle storie dimenticate; non solo, cioè, simbolo malinconico di oblio e memoria (della «ricordanza» leopardiana e della «scordanza» di Mengo), ma anche allusione alla hybris tecnologica dell’uomo, che segna, la notte del 20 luglio 1969, la morte dell’ultimo narratore: Domenico Ruscitti detto Mengo.