«Al solito dei pittori, quest’huomo è stravagante, e sopra le sue parole non gli si può far stato». Così scrivevano Giovan Battista Benzi e Jan Gabriel Voet a Filippo Maria Sauli a Genova, che li aveva ingaggiati nel giugno 1666 perché voleva avere due ‘modelli’ per due pale d’altare per la sua cappella di famiglia nella chiesa di Santa Maria Assunta di Carignano. Il pittore di cui Sauli richiedeva i servigi altri non era che Rembrandt. Voet e Benzi avevano avvertito subito il committente: il pittore «pretende molto denaro». Alla stessa stregua, qualche anno prima, nel 1661, Rembrandt aveva inviato al principe Ruffo a Messina una serie di note di spesa per un Alessandro Magno e un Omero che si stava animando a dipingere, e in un post scriptum autografo il pittore metteva le mani avanti: quelle opere sarebbero costate care, dato che sono sì di formato medio-grande ma, soprattutto, perché le aveva dipinte lui, Rembrandt, che era «uomo intelligente di pittura», cioè sapeva ciò di cui trattava e dunque poteva stabilire i prezzi a ragion veduta.
Già dagli anni cinquanta del XVII secolo la fama del grande artista olandese aveva varcato i confini delle Province Unite, che egli, invece, non aveva mai lasciato. A fare da volano erano state soprattutto le sue incisioni: su quelle si misurava tutta la sua inventiva e la sua arditezza tecnica. Non a caso, il primo biografo italiano del pittore, Filippo Baldinucci, inserì un profilo dedicato a Rembrandt nel volume del 1686 dedicato al Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame, di cui abbiamo l’edizione moderna curata per Einaudi da Evelina Borea (2013). Erano le stampe dell’olandese che aveva visto Guercino, lo dichiara lui stesso scrivendo a Ruffo il 13 giugno 1660. Il pittore emiliano avrebbe dovuto realizzare per il principe siciliano un pendant dell’Aristotele che contempla il busto di Omero (oggi al Metropolitan), che era arrivato a Messina nel 1654.
Così come per Rembrandt l’arte italiana era stata, di fatto, un’arte «di carta», che egli aveva studiato soprattutto sulle incisioni dei grandi maestri del Cinquecento, la sua fama viaggiò grazie alle incisioni. Eppure, proprio in Italia, si conservavano alcune opere del pittore. Oltre all’Autoritratto conservato oggi agli Uffizi, verosimilmente acquistato da Cosimo III de’ Medici quando questi tornò per la seconda volta ad Amsterdam tra il 1668 e il 1669, a Roma era possibile ammirare anche l’Autoritratto come San Paolo. Ora, per una delle strane coincidenze della Storia, l’accompagnatore di Cosimo de’ Medici nei suoi viaggi transalpini era Filippo Corsini. È il suo diario, ad esempio, che ci racconta delle visite del futuro Granduca alle botteghe degli artisti. Il figlio di Filippo, Neri Maria Corsini, sarebbe stato il principale artefice della collezione raccolta nell’omonimo palazzo romano. Proprio lì transitò, nel corso del Settecento, l’Autoritratto come San Paolo di Rembrandt. Ci era arrivato da Parigi, dalla vendita della collezione di Everhard Jabach, nel cui inventario postumo del 1696 è ricordato un dipinto che pare essere proprio questo autoritratto. Neri Maria Corsini lo acquistò tra il 1737 e il 1739 da Marie-Thérèse Gosset, vedova di Nicolas Vleughels, il direttore dell’Accademia di Francia a Roma che, a sua volta, dovette entrare in possesso del dipinto a Parigi.
A Roma l’Autoritratto di Rembrandt ci è tornato a febbraio per la prima volta dal 1799, opera d’onore in una piccola ma selezionata esposizione che, dopo la chiusura forzata dovuta alla pandemia, è stata prorogata sino al 30 settembre. L’occasione della mostra Rembrandt alla Galleria Corsini. L’Autoritratto come San Paolo è stata il ritrovamento, da parte del curatore Alessandro Cosma, di una serie di documenti conservati nell’Archivio Corsini di San Casciano in Val di Pesa che raccontano che cosa accade al dipinto tra la sua alienazione nel 1799 e la sua ricomparsa, in Inghilterra, nel 1807.
Le vicende toccano un punto importante della storia del collezionismo e della dispersione delle grandi raccolte patrizie alla fine dell’età moderna. Per far fronte alle pesanti richieste di denaro da parte degli occupanti francesi, Ludovico Radice, «maestro di casa» dei Corsini e, in assenza del principe Tommaso, incaricato del Palazzo e dei beni della famiglia, organizzò una serie di vendite. Dopo una certa riluttanza da parte del principe, alla fine fu inevitabile iniziare a vendere anche i quadri. E così l’Autoritratto prese la via del mercato. Dalla bottega di Luigi Mirri, grazie ai documenti riemersi, è possibile seguire le peregrinazioni del dipinto: prima nelle mani del mercante inglese William Ottley – che lo ebbe tra fine 1799 e inizio 1800 –, fu poi acquistato a stretto giro da Robert Fagan, un altro mercante inglese che era in contatto con William Buchanan. Questi avrebbe messo le mani sulla collezione di Fagan solo nel 1807, dopo una serie di complesse trattative condotte dal suo agente James Irvine. Ancor prima che passasse la buriana della Repubblica romana, Tommaso Corsini intimò a Radice di fermare tutte le operazioni. Ma ormai era troppo tardi. Il primo lotto era di 25 dipinti, tra cui, oltre all’Autoritratto di Rembrandt, v’erano anche La visione di Sant’Agostino di Garofalo o due paesaggi di Gaspar Dughet. Il secondo lotto di opere, che includeva, tra le altre, la Salomé di Guido Reni e la Madonna col Bambino di Murillo, fu bloccato, e i Corsini iniziarono una causa per riavere i loro quadri.
Queste vicende, complesse e accidentate, in cui si sovrappongono interessi e mire diverse, sono ritessute con dovizia dai saggi raccolti nell’agile catalogo (Allemandi, euro 26,00), a firma dello stesso curatore e di Giovanna Capitelli, Ebe Antetomaso e Jonathan Bikker, oltre alle schede di Gabriella Bocconi e Isabella Rossi. Ad affiancare la star dell’esposizione, oltre a una selezione dei documenti originali, stanno le incisioni, a testimoniare del vasto interesse che i Corsini nutrivano verso questo particolare medium espressivo che Rembrandt riuscì a piegare a risultati espressivi altissimi.
Un’occasione che rappresenta un tassello importante per ricostruire tanto le vicende del collezionismo quanto l’interesse e il gusto, in Italia, nei confronti di un pittore che non s’imbarcò mai per il Grand Tour nella Penisola. Eppure, come scrivevano Benzi e Voet a Sauli nel 1666, Rembrandt voleva «acquistare lode et honore» in Italia con l’occasione della commissione genovese. In un certo senso si può dire che sarebbero comunque arrivati la fama e il successo anche in Italia, nonostante tutto.