Rembrandt van Rijn, “Nude Woman Resting on a Cushion”, c. 1658, Amsterdam, Rijksmuseum

 

«I disegni di Rembrandt procurano un godimento senza fine, meglio del cinema, guardarli è fonte di un piacere incredibile. In Rembrandt non trovi mai un volto generico, gli occhi sono sempre sorprendenti e si può dire quello che stanno guardando. Mise più forza su un viso di qualsiasi altro pittore prima di lui, perché vedeva di più. Era una questione di occhio – e di cuore».
David Hockney coglie, dall’interno del mestiere, tutta la grandezza del Rembrandt disegnatore e incisore, che è la forza dell’esposizione allestita al Rijksmuseum (fino al 10 giugno) per i 350 anni dalla morte del pittore olandese. Per chi ha avuto la fortuna di vedere la mostra di Hockney che si conclude oggi al Van Gogh Museum è spontaneo cogliere un simbolico passaggio di testimone tra i secoli, una linea ideale, ma ben visibile, tracciata intorno alla centralità e necessità del disegno, che va da Rembrandt a Hockney, passando per Van Gogh.
Per omaggiare il pittore di Leida, il Rijks, che ne conserva il maggior nucleo di opere al mondo, punta tutto sulla propria collezione, esponendo 22 dipinti, 60 disegni e 300 incisioni… Non era necessario per il museo, in effetti, chiamare in causa grandi prestiti internazionali, soprattutto se, uscito dai locali delle mostre temporanee, in fondo al cannocchiale prospettico della celebre galleria, puoi contare sul suo capolavoro assoluto: la tonante e placida Ronda di notte (1642). In autunno, a ogni buon conto, lo stesso museo non mancherà di inaugurare una mostra-confronto, Velázquez-Rembrandt, forse più pertinente della coppia con cui, nel 2006, il Van Gogh Museum aveva celebrato il quarto centenario dalla nascita del pittore olandese: Caravaggio-Rembrandt.
Anche restando al solo nucleo di dipinti presentati, quella allestita oggi è una mostra che permette di essere letta a tutti i possibili livelli di conoscenza del visitatore, pregressi o contestuali che siano. Attraverso opere esemplificative, il percorso si apre con uno dei primi autoritratti, in cui il giovane artsita mette in carne la lotta tra essenza e ombra che lo accompagnerà, sul crinale della verità, tutta la vita. Passando per le convulse scene bibliche, in cui la luce detta il ritmo al crepitare della materia sulla tela, si arriva ai volti domestici, tra i quali rimane indimenticabile il ritratto della moglie Saskia, il cui volto rubicondo riesce a vincere le tenebre, tingendo la camiciola di riflessi rosati. Tra gli esiti delle tante commissioni ricevute in vita, la cui profondità umana frange la superficie, alternativamente invetriata e porosa, si incontrano in mostra i coniugi Soolmans, l’unica coppia di ritratti a figura intera e a grandezza naturale eseguiti dal pittore.
Scorre davanti ai nostri occhi il tormento e l’estasi di una vita, messa in scena da un pittore che, come nessun’altro, è riuscito a dare corpo, non solo al crocevia complesso della sua umanità, ma, grazie all’espansione progressiva di significati dalla portata universale, alla complessità e ricchezza di una città come Amsterdam, fino alla vertiginosa profondità umana e spirituale che lo ha reso interprete dell’insondabilità dell’uomo in quanto tale. Perché la grandezza di Rembrandt è proprio saper trattenere, e far saltare insieme, ogni tensione particolare dell’universale, un processo che non si finisce di scoprire a ogni vista. Del resto, la serie inusitata dei suoi autoritratti ne registra maturazione e invecchiamento ma, soprattutto, tormenti e desideri di un’esistenza travagliata, costellata di lutti che ne abbracciarono tutta la vita.
Aperta bottega a Leida nel 1625 e trasferitosi ad Amsterdam nel 1631, Rembrandt allestisce casa con la moglie Saskia (1639), la sua attività di pittore è molto promettente e la ricchezza familiare della moglie sembra poter rassicurare il figlio di un mugnaio. Ma le tragedie mitraglieranno la sua esistenza in un pugno d’anni. I primi tre figli non superano i pochi mesi di vita e la nascita del quarto, Titus, è seguita, a breve distanza, dalla malattia e morte della moglie (1642). Del resto, le traversie che seguirono furono di ogni genere, non gli fu risparmiata la bancarotta (1656), che lo costrinse a lasciare casa e vedersi pignorati tutti gli averi e quadri e, sul limitare della vita, non gli venne concessa la dipartita, se non prima di aver vissuto la morte della sua nuova compagna Hendrickje (1663), del figlio Titus (1668) e della nuora Maddalena, scomparsa pochi mesi prima del pittore (1669), di cui non ci sono nemmeno arrivate le spoglie mortali.
Un travaglio di vita che Rembrandt ci restituisce in figura senza sconti, ma veicolandolo attraverso le rappresentazioni di un mondo pulsante e multidirezionale come solo l’Olanda di inizio Seicento poteva essere: porto e crogiolo di religioni dove Calvinismo, Protestantesimo (in varianti multiple e dottrinalmente contrapposte) e Cattolicesimo interessano al pittore non solo per le possibili committenze ma, evidentemente, per una ricerca di spiritualità che avvertiva necessaria. In mostra, il tempo – è il caso di dirlo – sembra fermarsi di fronte al Geremia che piange sulla distruzione di Gerusalemme (1630), dipinto ben prima di metter su casa nel quartiere ebraico di Amsterdam, dove reperì molti modelli per le scene più articolate, ma anche per i suoi Ritratti di Gesù, visti alla sorprendente mostra del Louvre nel 2011.
La pittura di Rembrandt, si sa, non è solo luce, ma soprattutto materia, che egli accentua nella sua produzione degli ultimi anni, in cui si rompono le regole della compostezza e le placche telluriche del colore gonfiano panneggi e incarnati, destabilizzando ogni possibile finitezza formale ed esistenziale della gioventù. È il caso del tardo Isacco e Rebecca (La sposa ebrea), una sorta di testamento di stile, perfettamente complementare al dipinto giovanile dedicato a Geremia. Dal luccichio a punta di pennello si arriva alla materia impastata sulla tela, chiamata a reggere il peso della vita, in un’evoluzione che, mutatis mutandis, non può non farci pensare all’ultimo Tiziano o ai dipinti con le dita di Fra’ Galgario.
Si coglie, proprio grazie a questi esiti pittorici, l’importanza di poter vedere in mostra un nucleo significativo di disegni e una selezione così ampia delle oltre 1300 incisioni che possiede il museo. Materiali che, per la loro fragilità più ancora che per motivi di spazio, a differenza delle tele, non sono normalmente esposti. L’occasione unica è un affondo definitivo in questo livello di materia che ci racconta la verità dell’artista. Quella che abbiamo in mostra, non è solo la possibilità di risalire al crepuscolo dell’ideazione di un quadro, di cogliere la libertà e sincerità di tratto amata da Hockney. È l’occasione di seguire la mano di Rembrandt, tratto dopo tratto, impegnato a solcare una lastra di cui possiamo indagare, stato dopo stato, la ricerca continua delle tenebre della luce e della luce delle tenebre. Picchiettando la nostra retina con i tratti sincopati, sinusoidali e contraddittori del disegno o con la trama parallela a densità variabile delle incisioni a bulino e punta secca, Rembrandt ci apre la porta del suo mondo, in cui si rompono le gerarchie dei soggetti. Perché la carne di una donna addormentata e quella del corpo bolso di Cristo calato a fatica dalla croce, sembra dirci, hanno la stessa identica dignità: quella dell’esistenza.