In uno dei grandi libri novecenteschi di storia dell’arte, Francis Haskell proponeva un’interpretazione articolata di come, nel corso dei secoli, fosse stato possibile assistere alla ‘riscoperta’ di artisti e stili del passato. Attraverso le indagini e i casi proposti in Rediscoveries in Art si può dire che Haskell abbia aperto la strada a un nuovo modo di indagare i fenomeni artistici, includendoli in una storia del gusto e della ricezione in epoche diverse da quelle in cui quei fenomeni si originarono. Uno dei casi migliori per cogliere proprio questi aspetti legati alla ‘fortuna’ è quello offerto dalle opere di Rembrandt van Rijn. L’artista olandese è stato infatti oggetto di una continua attenzione tanto da parte di chi elogiava la sua arte quanto da parte di coloro che la eleggevano a bersaglio polemico.
Un invito a ragionare su questi problemi arriva dalla mostra alla Scottish National Gallery di Edimburgo, Rembrandt: Britain’s Discovery of the Master, curata da Christian Tico Siefert (e aperta fino al 14 ottobre). Incentrata sul contesto britannico e sulla precoce e duratura accoglienza che vi ebbero le opere di Rembrandt, l’esposizione mette fianco a fianco più di cinquanta opere dell’artista – tra dipinti, disegni e incisioni – e svariate testimonianze pittoriche e grafiche che dalle opere dell’olandese hanno tratto ispirazione. La scelta poteva rivelarsi rischiosa: come si misura, infatti, l’impatto di un artista in un contesto geograficamente e temporalmente distante? Quale tipo di testimonianze privilegiare, quelle scritte o quelle raffigurate? Come conciliare questi diversi aspetti? E quanto peso riservare alle vicende attributive che, in special modo nel caso di Rembrandt, hanno comportato spesso revisioni radicali del suo catalogo?
Quello che si costruisce nelle sale del museo scozzese è un percorso accessibile a più livelli, che offre diversi gradi di profondità tanto per chi vorrà soltanto ammirare i capolavori dell’artista olandese quanto per chi, invece, osserverà con attenzione anche le repliche e le derivazioni sette e ottocentesche e magari deciderà di proseguire il discorso leggendo i saggi del catalogo e confrontando le schede di provenance.
Sin dal XVII secolo, quando Rembrandt era ancora giovane, fu proprio la Gran Bretagna il primo paese al di fuori della natìa Olanda ad accogliere alcune sue opere. Per quanto sui riferimenti inventariali non ci sia unanime interpretazione, resta il fatto che nel 1639, nella raccolta di uno dei più avidi collezionisti del Seicento, Carlo I, venivano registrate tre opere attribuite all’artista (e probabilmente vi erano giunte almeno un lustro prima). A questo precoce riferimento a lungo s’è ancorato l’Autoritratto di Liverpool che, nonostante i recenti dissensi riguardo alla sua autografia, si è scelto di mantenere in apertura del percorso espositivo con la dicitura «attribuito a». A qualche decennio successivo a questo riferimento cronologico precoce è possibile ancorare i due grandi ritratti del 1634 raffiguranti il reverendo Johannes Elison e la moglie, Maria Bockenolle (prestati dal Museum of Fine Arts di Boston) che, prima di giungere a Parigi nel 1863 passando per un’asta londinese, erano rimasti a lungo a Norfolk.
A dipinti come questi se ne affiancano altri, giunti in Gran Bretagna in momenti successivi e appartenenti a una fase più tarda del percorso artistico di Rembrandt, per la maggior parte a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta del Seicento. E già questo è un dato interessante. A partire dagli anni cinquanta, infatti, Rembrandt inaugura uno stile pittorico che alcuni critici, già nel Seicento, definivano «ruvido», «grezzo». È una pittura fatta di colori sfaldati, che si accorpa sulla tela o sulla tavola attraverso pennellate spesse e materiche: una pittura che, se osservata da vicino, rivela tutto il suo aspetto processuale, additivo, ma che si ricompone in una figurazione coerente e sorprendentemente accattivante non appena si osservi alla giusta distanza. È facile immaginare come opere quali il Ritratto di Tito seduto (Rotterdam, Museo Boijmans Van Beuningen) o la Donna che entra nel ruscello (Londra, National Gallery) abbiano esercitato un enorme fascino su artisti di epoche successive.
In questo senso, una delle figure che emerge in primo piano, sia nella mostra che nel relativo catalogo, è Sir Joshua Reynolds. Per quanto l’artista nei suoi Discourses, che teneva annualmente alla Royal Academy di Londra, in molti passaggi criticasse Rembrandt (l’uso troppo pronunciato del chiaroscuro, la scelta di soggetti poco edificanti, un eccessivo realismo…), nondimeno possedeva e collezionava avidamente le sue opere. E ciò che risulta ancora più interessante è il fatto che Reynolds non esitò a intervenire su alcuni dipinti dell’artista che erano in suo possesso, alcuni dei quali, come la Visione di Daniele (Berlino, Gemäldegalerie), sono esposti in mostra.
Quello della pratica e dello studio delle composizioni di Rembrandt – intendendo «studio» in senso tecnico, cioè il come disporre le figure e come comporre la scena da raffigurare – è un fil rouge che porta il visitatore ad ammirare le esercitazioni compiute a partire dai disegni dell’artista realizzate un secolo e mezzo dopo. Una pratica che permette di entrare per un momento nel laboratorio creativo di un artista.
Tra le opere giunte in Scozia un posto di rilievo spetta al Mulino (Washington, National Gallery), che Rembrandt dipinse verosimilmente intorno al 1645-’48. L’opera è un unicum da molti punti di vista. Non solo è l’unico paesaggio dipinto su tela, mentre gli altri (non molti, circa una decina) sono tutti su tavola, ma, rapportato a questi altri,si può dire che sia un’opera di grandi dimensioni. Giunto nel Regno Unito dalla vendita della collezione del Duca d’Orléans alla fine del XVII secolo, nel 1911 venne acquistato da uno dei grandi collezionisti americani del momento, P.A.B. Widener, che sborsò una cifra astronomica per assicurarselo. In un certo momento della sua storia, nel 1793, finì nella mani di William Smith, figura politica di spicco e amico di William Turner, che non dovette lasciarsi sfuggire l’occasione di studiare il dipinto. Quando nel 1806 il quadro venne esposto a una mostra della British Institution in molti vi si affollarono davanti per copiarlo (tra gli altri John Constable), come icasticamente testimoniato dalla bellissima vignetta di Alfred Edward Chalon presentata in mostra di fianco al celebre dipinto.
Soltanto qualche decennio fa non sarebbe stato immaginabile vedere esposta quest’opera con l’attribuzione al pittore: praticamente nel momento del suo passaggio negli Stati Uniti, in Europa alcuni influenti studiosi misero in dubbio l’attribuzione, avanzando il nome di altri artisti e, in alcuni casi, perfino l’idea che l’opera risalisse all’Ottocento. Escluso dai cataloghi dell’opera di Rembrandt pubblicati nel corso del Novecento (come quello di Bredius, o di Gerson), solo a partire dagli anni novanta del secolo scorso si è tornati a guardare al Mulino come a un’opera autentica grazie agli studi di Arthur K. Wheelock Jr. e Cynthia Scheider.
Grazie al taglio interpretativo prescelto, quella di Edimburgo è una mostra che, idealmente, ben si colloca come un’anteprima delle già annunciate esposizioni del prossimo anno per celebrare i trecento anni dalla morte di Rembrandt.