Rembrandt: Britain’s Discovery of the Master alla Scottish National Gallery di Edimburgo ripercorre il successo dell’opera dell’artista olandese in Inghilterra. La storia dell’arte si confronta qui con la storia del gusto, del mercato, del collezionismo e persino dell’immaginario. Un’occasione unica per ammirare, accanto agli originali, le copie e le imitazioni, che rendono visibile, in un solo colpo d’occhio, cosa viene trattenuto e cosa viene tralasciato.
La mostra prende avvio nel momento in cui agli Italiani e ai Francesi, fino al diciottesimo secolo grandi preferiti dai collezionisti, subentra Rembrandt, i cui ritratti conquistano progressivamente l’Olanda, la Francia e l’Inghilterra. Finché l’interesse per Rembrandt si trasforma in una vera e propria mania, denunciata da Horace Walpole sin dal 1763. Come si trasforma questa mania nel corso del tempo, cosa ne sopravvive nell’era contemporanea? Me lo chiedo trepidante sull’uscio della sala consacrata al ventesimo secolo, quella su cui ho più aspettative, in cui mi sento più a mio agio, in cui – come in uno spazio domestico – riconosco il mobilio e le suppellettili. La sala si trova in un’altra ala del museo, accessibile uscendo dal percorso e attraversando un corridoio. Una scelta dettata dall’architettura e che nondimeno marca distintamente uno scarto. O è forse un campanello d’allarme: quella che seguirà sarà, più che la conclusione dell’esposizione, una postilla, un post scriptum sussurrato all’orecchio dei visitatori.
E in effetti su Rembrandt e il ventesimo secolo il bilancio è magro nell’economia della mostra. Del poco convincente Glenn Brown è inutile parlare. Poco da riferire anche su I tre alberi ripresi nel 1975 da Frank Auerbach, un pittore che conosco meno per la sua opera che per il ritratto che W.G. Sebald ne fa ne Gli Emigrati sotto il nome di Max Ferber, e che sembra proiettarlo in un’epoca remota.
Perché, mi chiedo, l’incontro tra Rembrandt e il Novecento fallisce all’interno di una mostra altrimenti riuscita? Limitarsi alla pittura inglese è una prima risposta, che elude tuttavia l’essenziale. Il problema, come mi rendo conto molto più tardi, è profondo e tocca il modo d’intendere l’idea, di per sé accademica, d’influenza, quell’angoscia dell’influenza su cui ha riflettuto in campo poetico Harold Bloom. In questo caso l’«efebo» mette in atto meccanismi di difesa per liberarsi dal fantasma del padre-precursore, il minaccioso blocking agent, a colpi di fraintendimenti.
Non mancano, a Edimburgo, casi di fraintendimenti eversivi. Ne accenno qui tre, in un crescendo del grado di riappropriazione, a partire dal pittore Sir Joshua Reynolds, che ammirava Rembrandt ma lo trovava troppo nero, non esitando a ridipingere i Rembrandt in suo possesso, come Uomo con berretto rosso o Visione di Daniele. Il mercato dei falsi è il secondo caso, come le stampe satinate o con inchiostro rosso (mai utilizzato dall’artista) a partire dalla matrice originale. In fondo lo stesso Rembrandt stampava diversi stati di lavorazione della stessa immagine e combinava tecniche diverse come l’acquaforte, l’incisione, la puntasecca. È anche per limitare la diffusione di versioni non autorizzate che viene tradotto, un anno dopo la pubblicazione, il primo catalogo ragionato delle sue stampe: Edme-François Gersaint, Catalogue raisonné de toutes les pièces qui forment l’œuvre de Rembrandt, 1751. Il terzo caso è quello di Robert Dighton, cantante, disegnatore e tipografo che, verso il 1804, con la scusa di studiare le stampe di Rembrandt al British Museum, ne approfitta per sostituire gli originali con delle copie.
Ora, quale fraintendimento per il ventesimo secolo? Da parte mia, nessuna esitazione al riguardo, convocherei Jean Genet, che per dieci anni coltiva il progetto di un libro su Rembrandt mai pubblicato. Restano due testi straordinari (riuniti da Gallimard in un’edizione illustrata che ogni amante di cose d’arte dovrebbe avere sottomano): Il segreto di Rembrandt (1958) e soprattutto Che cosa è rimasto di un Rembrandt strappato in pezzetti tutti uguali, e buttato nel cesso (1967). Quest’ultimo testo scorre su due colonne affiancate: in una si parla di Rembrandt, pittore di materie e colori che sbavano, indifferente all’identità dei soggetti che ritrae, affatto somiglianti ai modelli. Nell’altra colonna, dal registro più intimo, viene riportata una rivelazione avuta da Genet sul treno, osservando il suo compagno di viaggio dai «baffi sudici» e la «bocca guasta», e che tocca la vera natura degli uomini, ovvero la loro equivalenza: «ogni uomo ne vale un altro». Al punto che quello sguardo estraneo e repellente gli entra dentro e corrode ciò che ha di più intimo. Un Genet alle prese col reale, con la solitudine e la marginalità, affratellato a Giacometti nel suo atelier, alle prese con la rappresentazione di un volto e del suo sguardo.
Nelle mani di Genet Rembrandt diventa il pittore delle rughe, delle verruche e delle zampe di gallina che segnano la vecchiaia, di volti decrepiti e teste che imputridiscono e si decompongono, della disperata oscurità cromatica ed esistenziale. Il genio diventa anti-pittore, imbrattatele che lavora anche «al cesso dove, c’è da giurarlo, continuava a scarabocchiare con le unghie sporche». Come suggerisce Vincent Van Gogh al fratello Theo il 10 ottobre 1885 (un passo su cui Franco Rella è più volte rivenuto): «Bisogna essere morti diverse volte per dipingere così».
Genet descrive insomma l’incontro tra due uomini torturati prima che tra un Pittore e uno Scrittore. La sua è una lettura empatica se non sintomatica, che abolisce ogni distanza critica tra il suo sguardo e l’opera, la quale è fagocitata, masticata e sputata. Fare a pezzi Rembrandt come ultimo atto d’amore. Del resto sono gli stessi dipinti dell’artista olandese a non offrirsi passivamente allo sguardo dello spettatore, ma ad afferrarlo e a consumarne l’esistenza. Siamo lontani dai fraintendimenti del passato, come l’aneddoto riportato da Roger de Piles nel suo corso di pittura (tradotto in inglese nel 1706), col ritratto femminile esposto dall’artista alla finestra e preso per vero dai passanti.
Si può obiettare che Genet è uno scrittore e non uno storico dell’arte – una critica irricevibile che toglierebbe di mezzo le pagine più belle, nel ventesimo secolo, scritte sull’arte –, o che la sua esperienza è troppo peculiare per assurgere a modello. A me sembra, al contrario, paradigmatica del rapporto contemporaneo con i maestri della storia dell’arte. Peccato che di tutto questo – di Genet e del Novecento tout court ? – la mostra di Edimburgo non sappia che farsene.