Accettare la direzione del Festival di Santarcangelo 2020 per i Motus, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, era stata già una scommessa importante. Non si trattava infatti di un’edizione qualsiasi ma di quella dei cinquant’anni di uno dei festival teatrali di riferimento per la ricerca internazionale sin dalle sue origini, sempre in dialogo col proprio tempo, e insieme un po’ avanti a esso, precursore di inquietudini, universi poetici, sperimentazioni che dal «terzo teatro» lo hanno portato ai crossover tra performance e arti visive degli ultimi decenni, passando per il nomadismo punk dei Mutoid Waste Company, il gruppo inglese che ha trovato radici, come molte altre figure, nel paesaggio della cittadina romagnola dove è nato Tonino Guerra, a un passo dalla Rimini delle memorie felliniane. È che Santarcangelo, e la sua piazza su cui affacciano i caffè come palchetti di una scena popolata secondo i momenti da mercatini, schermi, flaneur dell’arte, giovanissimi, è un po’ un luogo del cuore, quel posto speciale in cui tutti passano, che fa parte della storia del teatro ma non solo, dove ogni gruppo di ricerca almeno una volta è approdato. Gli stessi Motus vi fecero irruzione nei primi anni Novanta, quando il direttore era Leo De Berardinis, rivendicando un cambiamento di sguardo, di approccio critico, una prospettiva teatrale che includesse le nuove generazioni «ai margini» – e lo scontro/ incontro generazionale è una delle ricchezze del festival.

LA DIREZIONE dei Motus era solo per quest’anno, quasi un «numero speciale» in cui mettere insieme esperienze e futuro. Nel bel mezzo di un lavoro frenetico e avviato è arrivata la pandemia, tutto si è fermato, in particolare lo spettacolo. Dallo spaesamento iniziale Daniela e Enrico hanno cominciato a riflettere su come procedere. Dicono Daniela e Enrico alternandosi al telefono in una lunga conversazione: «Volevamo capire se c’erano soluzioni con cui dare almeno un segnale positivo a una categoria economicamente a pezzi, in un settore che non vede luce, con tante persone non sanno come sopravvivere». Non era questione di spostare tutto su qualche piattaforma digitale ma di confrontarsi con questo momento, e coi cambiamenti che porta in sé, con l’incertezza del vissuto e con la sua narrazione. Dall’ipotesi di annullamento si è arrivati così a Santarcangelo Festival 2050( 15-19 luglio), un gioco di date tra il compleanno e il presente, ma soprattutto il desiderio come dice il sottotitolo, «Futuro fantastico», omaggio a Isaac Asimov nel centenario della nascita, di interrogarsi sul presente e di esplorare un orizzonte aperto.
Quello di luglio sarà il primo atto di tre movimenti, il secondo è previsto per l’inverno – Winter is coming – in forma di residenza per diversi gruppi, e il terzo per il prossimo luglio, in cui ci si augura di recuperare la dimensione internazionale prolungando la direzione dei Motus fino al 2021.

Cosa accadrà dunque il prossimo luglio?
Sarà un’edizione di emergenza, molti gruppi che avevamo previsto internazionali e italiani non sono riusciti a realizzare i loro spettacoli. Utilizzeremo solo gli spazi all’aperto, ogni evento sarà contingentato. Abbiamo avuto un grande sostegno dalla regione Emilia-Romagna, il festival vuole essere un progetto pilota, il primo che si confronta con i corpi in uno spazio fisico dopo il lockdown, e per questo il lavoro organizzativo è molto complesso. Avremo solo gruppi italiani, e verranno coinvolti anche gli abitanti di Santarcangelo, ci sembra indispensabile ora rafforzare ancora di più il rapporto con la cittadinanza. Immaginiamo questo appuntamento come una performance collettiva, per questo pensiamo di documentarne lo svolgimento e l’organizzazione in un film a cui stiamo lavorando con la società di produzione Dugong.

La decisione di dividere il festival in tre atti come ha preso forma?
È stata un po’ obbligata dagli eventi, molti gruppi si sono dovuti fermare, gli stranieri non potevano viaggiare. Per questo abbiamo prorogato la nostra direzione sino al 20021, avevamo contatti già avviati, impegni presi, ci sembrava un gesto di lealtà verso gli artisti. Dopo il primo atto, che avrà una durata più breve, ci sarà l’appuntamento invernale riservato ai più giovani che dovevano debuttare la festival. E che vogliamo sostenere con un progetto di residenze nel corso delle quali possono terminare le loro produzioni in vista del terzo atto nel 2021. Se tutto va bene recupereremo i progetti interrotti dalla pandemia, però l’edizione del prossimo luglio non sarà la fotocopia di ciò che avevamo immaginato per quest’anno. Anche noi siamo diversi dopo questa esperienza, vogliamo capire quali possono essere le nuove interazioni col festival e coi suoi 50 anni. In un certo senso questi tre atti sono un unico movimento nel quale si mettono a fuoco i possibili modi di realizzazione e di fruizione della scena. Per ora non abbiamo certezze se non capire come muoversi all’interno delle nuove regole.

Realizzare il festival è un gesto forte di fronte alla crisi dello spettacolo dal vivo, settore sottovalutato che appare nei suoi spazi il più colpito dalla pandemia.
Per noi è un segno politico che comincia appunto dalla condivisione coi cittadini, col pubblico, dalla possibilità di stare insieme, di affrontare la situazione della categoria che ha fatto richieste precise e che vive una grande difficoltà sul fronte dei sostegni. A quello che è accaduto vogliamo reagire con spettacoli nuovi non con il repertorio e usare questa possibilità come una prova aperta, che include l’uso della tecnologia digitale laddove è necessario in modo da garantire la partecipazione più ampia di artisti impegnati su vari fronti. Ci sembra importante aprire una discussione con tutti i lavoratori, sul fronte sindacale, perché si parla di una parte importante della cultura italiana.

A proposito, cosa ne pensate delle ipotesi di un teatro digitale?
C’è stata una lunga discussione tra festival sull’argomento, abbiamo seguito online alcuni eventi che hanno scelto questa formula per non perdere gli sponsor. Ci sono alcune novità interessanti, proposte anche belle di chi progetta la propria ricerca sulla piattaforma, quindi con un linguaggio pensato per quel tipo di fruizione. C’è però una vitalità nella presenza fisica dello spettacolo che è insostituibile e non vorremmo che scomparisse. Inoltre molti gruppi lavorano in direzioni che farebbero più fatica a ripensarsi secondo questa modalità. Non si deve poi dimenticare che l’accesso alla rete non è garantito a tutti, cosa che crea diseguaglianze o che può diventare una limitazione della libertà. Omologare il teatro in questa direzione sarebbe riduttivo.

Quali spettacoli ci saranno nel primo atto del festival?
Produzioni piccole, monologhi, che permettono di realizzare una ripresa «partecipata» da diffondere in streaming in un modo su cui stiamo ragionando; vogliamo evitare la sempliceriproduzione di cui la rete è ormai satura. Avevamo un progetto cinematografico con quattro film da girare durante il festival che probabilmente saranno posticipati, almeno in parte. È tutto molto sperimentale e non solo per capire come orientarsi tra le norme, distanziamento, mascherine, tracciamento: abbiamo vissuto e stiamo vivendo un cambiamento da cui il teatro sarà investito. Non sappiamo ancora in che modo e come diventerà la forma scenica ma sono sicuro (è Enrico a parlare ora, ndr) che quando tra qualche decennio rivedremo le immagini di oggi il teatro ne conserverà in sé delle tracce. Ho letto moltissima fantascienza e sentirmi dentro e fuori un racconto fantascientifico è strano, è come se la realtà superi la finzione e le previsioni apocalittiche sul 2020 abbiano trovato una concretezza. Ogni giorno è la fine del mondo, dice Margaret Atwood, l’idea è di muoversi in questa dimensione, assumendo l’incertezza che la caratterizza, che è comune a tutti e che avrà conseguenze che scopriremo solo in seguito. Dovremo tutti usare questa occasione per mettere in discussione gli algoritmi, per cambiare finalmente quanto prima non funzionava già prima.