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Rein, dialoghi a caldo su una capitolazione

Rein, dialoghi a caldo su una capitolazioneBerlino alla fine della guerra, nel 1945, foto presa dal sito rarehistoricalphotos.com

La presa di Berlino Dal 14 aprile al 2 maggio 1945, tra farsa e ignominia, il racconto-testimonianza di Heinz Rein sull’agonia della capitale dilaniata del III Reich. Uscito a puntate sulla «Berliner Zeitung» pochi mesi dopo il disastro, è diventato un libro: «Berlino. Ultimo atto», Sellerio

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 24 settembre 2017

La carta geografica su cui studiare le imponenti manovre militari della Grande Germania è ormai ridotta alla mappa topografica di Berlino: nella legenda la scala è sensibilmente cambiata. E cambiate sono le forze in campo: ragazzi non addestrati ma indottrinati, vecchi, malati. Da quasi tre anni ormai, dalla fiera resistenza incontrata a Mosca e dalla penosa rovina subita a Stalingrado, la strategia tedesca si è fatta difensiva e, nonostante sforzi e dispendio di vite, ha continuato inesorabilmente ad arretrare. È l’aprile del 1945 e Berlino, che pure è sempre stata una città piena di soldati, «in guerra e in pace, in marcia di partenza e rimpatriati, soldati vittoriosi e sconfitti», impeccabili nelle parate, festeggiati tra fiori nel 1914, partiti «senza canti né suoni» nel 1939, è percorsa ora da un nuovo tipo di soldato, mai visto lì e neppure immaginato, «il soldato stanco, con la barba incolta, sudicio, esausto, affamato: la bestia da prima linea». Con l’ulteriore e terminale differenza che non si può arretrare più, non c’è più entroterra dove continuare a riparare: la prima linea è ora simbolicamente e concretamente anche la linea estrema. Sono le ultime stanche battute della sanguinosa pantomima che Heinz Rein generosamente racconta trascorsi pochi mesi dalla capitolazione in Berlino. Ultimo atto (a cura di Mario Rubino, Sellerio «La memoria», pp. 896, € 18,00). Che certi toni siano da farsa, in quella storia, è innegabile, sebbene da farsa nerissima. Mentre la popolazione civile e le milizie racimolate per coercizione soffrono, i bollettini ufficiali lavorano d’artificio sulla verità somministrando incongruenze: «L’attacco è stato vittoriosamente respinto, la località purtroppo è andata perduta». Inventano truppe di alleggerimento alle porte di Berlino, e per convincerne la popolazione stampano finti volantini destinati ai battaglioni in arrivo e come per caso, a demoniaca bella posta, smarriti nelle strade. La popolazione ha sentimenti alterni: è stanchissima, affamata, prostrata, ma ancora pronta a riaccendersi di speranza all’enfasi di Goebbels e alla fedeltà pretesa dal Führer. L’idolatria dell’uomo-massa non è ancora sopita, gli invasati persistono, benché tutti i segni – anche a non voler avere occhi per vedere – siano quelli di un’imminente, ignominiosa disfatta.
La «travagliata» città di razionamenti e rovine, di profughi, freddo e cenere, che Helga Schneider aveva conosciuto negli ultimi anni di guerra, quand’era bambina, e più tardi narrato attenta alla sua infanzia nel Rogo di Berlino (Adelphi, 1995), trova nelle pagine di Rein descrizioni ampie e minuziose, tremendamente adulte, dolentissime e didattiche, e scritte a caldo. Finale Berlin (questo il titolo originale) aveva visto la luce a puntate sulla Berliner Zeitung, tra la fine del 1946 e l’inizio del ’47. Il ritmo narrativo è lentissimo, caratterizzato da una commistione di articolati dialoghi (o riflessioni) e descrizioni del disfacimento, punteggiati dai bollettini radio e dai fogli informativi prodotti nel Führerbunker, testimonianze che da sole, avrebbe considerato Walter Benjamin, hanno il pregio dell’evidenza, della «cosa da mostrare» che parla da sé, tanto risultano accecanti (non solo oggi), e in nevrotica malafede, i contenuti offerti ai cittadini stremati.
Il racconto è al presente, eccetto alcune incursioni memoriali funzionali allo sviluppo. Il punto di vista è interno a una variegata cellula di resistenza in clandestinità, uno dei gruppi sabotatori che evitò di difendere la capitale per non prolungarne distruzione e martirio.
Berlino è un corpo dilaniato da due anni di bombardamenti: i puntoni dei tetti volati via sono «come costole a cui è stata strappata la pelle; le finestre sono occhi con le palpebre abbassate», le capriate «ossa fuori da un cadavere».
Heinz Rein, all’anagrafe Reinhard Andermann (Berlino 1906 – Baden Baden ’91), giornalista sportivo colpito sotto il nazismo dallo Schreibverbot e dall’internamento, poi vissuto fino agli anni cinquanta nella DDR, aveva realizzato un’opera esemplare animata sia dal bisogno di comprendere sia dalla finalità etica. L’ansia, l’ossessione di capire come un’intera nazione avesse potuto sacrificarsi a una «macchina totalitaria accumulatrice di potere e divoratrice di individui», per dirla con Hannah Arendt, è affidata a uno dei protagonisti, il disertore ventiduenne Joachim Lassehn. Nei dialoghi interiori e con i compagni – un oste mai corrotto dalla propaganda, un deputato di sinistra, perseguitato e torturato, e la sua coraggiosa moglie, un medico di rara solidarietà, un ex compagno di scuola soldato dubbioso e intristito – il giovane cerca di resistere «alla soluzione nichilista» che considera tutta la vita «un’assoluta insensatezza» e inizia a sviscerare questioni esistenziali, sociali e politiche.
Comprende, così, che le «divinità naziste» sono soltanto «borghesucci incarogniti, avidi sanguinari» e che codardi non sono i disertori «ma coloro che eseguono tutti gli ordini impartiti, per crudeli e brutali che siano».
Questo libro, che fonde documenti, esperienze di prima mano e invenzioni narrative, è insieme un osservatorio scrupoloso, un romanzo di formazione, un dramma e un’inchiesta etica. È un racconto retoricamente tenuto, addolorato e sontuoso. Ha passo e intenti di un dialogo platonico mentre giorno per giorno, dal 14 aprile al 2 maggio, mette in luce moventi di classe e discute la colpevolezza di «tutto il popolo tedesco», mostrando che «le forme della vita civilizzata si sono infrante», che sono crollate pure le facciate. Che le donne, sfinite dalle privazioni e dal terrore, hanno la saggezza di dirsi «meglio un russo sulla pancia che un palazzo sulla testa», e gli ideologi quella di ammettere che «soltanto una completa disfatta può eliminare la dittatura hitleriana».
Su tutto, e la si direbbe un’astuzia, un’efficacia del libro, «il tempo sgocciola con pesantezza plumbea», mentre ciò che resta dei civili languisce o muore nelle cantine, e «il piccolo borghese traviato di Braunau» cura la regia dell’«orribile e dozzinale operetta del suicidio».

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