100 anni fa i dieci giorni che sconvolsero il mondo e lo ricostruirono con nuove sembianze.

Gli anniversari, si sa, sono un modo per tener viva la memoria storica collettiva. Non per imbalsamarla, quanto piuttosto per non smettere, di volta in volta, di reinventarla. E reinventare la storia della rivoluzione bolscevica significa oggi riattraversare le forme della sua messa in immagine, attraverso il cinema soprattutto.

L’opera teorica e artistica di Ejzenštejn, da Sciopero (1924) a La congiura dei boiardi (1947) è uno strumento pressoché imprescindibile per questo scopo.

È cosa ormai piuttosto nota che esista nel lavoro di Ejzenštejn (da regista e da teorico del cinema) una certa propensione, quando non addirittura una vera e propria incauta passione, per forme e manifestazioni diverse del pensiero della «regressione».

1935

Questa linea di tendenza, che caratterizza, con ogni evidenza, soprattutto l’ultima fase dell’opera di Ejzenštejn, è stata formulata per la prima volta – con chiarezza e forza espositiva – nel famoso intervento al primo Convegno dei lavoratori della cinematografia russa, svoltosi a Mosca nel gennaio del 1935.

È quella, infatti, la prima occasione ufficiale in cui Ejzenštejn descrive il legame che tiene unite le diverse forme di mentalità primitiva e il modo in cui l’opera d’arte si costruisce e lavora.

METOD

In Metod (l’ultima, incompiuta opera del regista, presto disponibile in traduzione italiana), Ejzenštejn si spinge sino a considerare ogni movimento (della natura, della storia, della coscienza, dell’arte) come il risultato dialettico di un doppio processo (insieme progressivo e regressivo, appunto): in avanti e indietro, verso l’alto e verso il basso.

Una posizione questa che si può considerare certamente come il risultato dell’incontro di Ejzenštejn con il pensiero primitivo: prima attraverso la lettura di alcuni classici dell’antropologia (La mentalità primitiva di Levy-Bruhl e Il ramo d’oro di Frazer, fra gli altri), poi attraverso il viaggio in Messico, un posto in cui si conservano visibili le tracce di una storia e una civiltà antichissime, accanto a quelle della allora recente rivoluzione zapatista.

Nelle parole di Ejzenštejn, primitivo non è il tempo di una età dell’oro perduta, di un’origine ideale, il cui ritorno non né pensabile, né auspicabile. Primitivo è piuttosto il nome di una condizione fuori dal tempo, che resiste alla storia e a ogni idea lineare di progresso. Una condizione in cui tutti i tempi collassano e diviene possibile pensare a un tempo nuovo per la Storia, che va reinventata e riscritta a partire da una radicale rivoluzione di tutte le forme artistiche, con una complessa operazione insieme estetica e politica.

AZIONE

Le forme del regresso che tanto affascinano Ejzenštejn sono il luogo in cui diviene possibile l’apertura di imprevisti orizzonti di possibilità, in cui si riattivano quelle specifiche modalità di pensiero che, in assenza di astrazione, sanno tramutarsi immediatamente in azione. Primitivo è il luogo e il tempo della rivoluzione.

Come altro definire infatti una rivoluzione, se non come l’occasione in cui, dentro il dato (il reale in atto), si può aprire un nuovo orizzonte del possibile, in cui al pensiero è riconsegnata la possibilità di farsi azione, prassi, gesto dirompente? Per questa ragione, pensare la rivoluzione e tradurla in atto significa anzitutto rivolgersi indietro, guardare al passato per re-inventarlo o forse addirittura, meglio, inventarlo per la prima volta.

I MOTI DI ODESSA

È esattamente ciò che accade in un film come La corazzata Potëmkin (1925). Tornando indietro ai moti del 1905, in occasione dei festeggiamenti per il loro ventennale, Ejzenštejn di fatto riscrive le pagine di quella prima rivoluzione, trasformando la storia di una sconfitta (come si sa, i moti di Odessa furono soffocati nel sangue dalla polizia zarista) nella esaltazione di una rivoluzione senza tempo, che è in nuce tutte le rivoluzioni possibili.

Ciò che è in gioco, nella realizzazione del film, è la creazione di una nuova storia, l’invenzione di quella che Benjamin avrebbe definito una nuova tradizione: che è poi il senso ultimo di tutte le rivoluzioni. Il cinema politico è il luogo di questa creazione e il montaggio lo strumento per la sua messa in forma. È grazie al montaggio e al suo ritmo, infatti, che il cinema può inventare un tempo nuovo, che rompa con ogni schema lineare del racconto storico.

Quello che il cinema mette in forma è dunque, letteralmente, il tempo della rivoluzione, in cui ciò che non era neppure pensabile diviene addirittura possibile, nel momento stesso in cui si interrompe il cammino di una storia ritenuta ineluttabile. Il tempo della rivoluzione è un tempo di ritorni e ripetizioni, che si volge indietro prima di muoversi in avanti.

ANDAMENTO

Come una costruzione di montaggio, il tempo della rivoluzione ha un andamento ritmico: per questo ha in sé qualcosa di regressivo, di primitivo, elementare ed atavico, proprio come il disgusto che si prova di fronte a un pezzo di carne piena di vermi, quella che i marinai del Potëmkin si rifiutano di mangiare, all’inizio del film. Qualcosa che ci tocca, ci emoziona, ci scuote; qualcosa di fronte alla quale non si può fare a meno di sollevarsi. Come si solleva la bandiera rossa che sventola ancora sulla prua dell’Aurora.

* Università di Palermo. Pubblichiamo qui un estratto del suo intervento al convegno che si terrà alla Galleria d’Arte moderna e contemporanea di Roma il 13 novembre. Nel 2018 uscirà Sergej M. Ejzenštejn «Il metodo» (vol. 1) a cura di Alessia Cervini