Una costituzione non scritta che ciascuno interpreta come gli pare, un esecutivo che fa e disfa come gli pare, un capo di Stato e delle forze armate non eletto col derrière sul trono finché morte non li separi, una camera alta ereditaria popolata di nobildonne e nobiluomini.

Non è la sinossi di un romanzo fantasy. Quello britannico è solitamente celebrato come uno dei sistemi elettorali più antichi e inossidabili, un meccanismo istituzionale capace di coniugare feudalesimo e postmoderno, il sogno erotico delle élite di tutto il mondo, che non a caso mandano qui i loro figli perché imparino l’arte di distinguersi e comandare. Ed è riflesso nell’autorappresentazione del Paese, che ha un rapporto feticistico col proprio passato. Ma se il primo attributo è insindacabile – l’antichità – ora l’inossidabilità comincia a ossidarsi. Nel senso che una serie di fattori sta mettendo in seria discussione il funzionamento strutturale di una monarchia costituzionale che – grazie soprattutto alla sua prodigiosa capacità di garantire l’inalienabilità del principio di disuguaglianza – è da sempre l’exemplum di chi considera tale disuguaglianza la base del contratto sociale.

Il prossimo 7 maggio questo sistema sarà messo alla prova come già nel 2010, quando si tennero le elezioni che hanno portato all’uscente quinquennio di coalizione fra conservatori e liberaldemocratici, all’insegna di una feroce imposizione di misure di austerità per curare una crisi naturalmente causata da coloro i cui interessi i due partiti sono lì a difendere.

Ma vediamo meglio il sistema in questione. Westminster utilizza il cosiddetto «first past the post», ossia un uninominale secco che consente di bypassare agilmente il rischio del paralizzante (leggi: democratico) stallo tipico di un sistema proporzionale. I seggi sono 650, la stragrande maggioranza di essi è in Inghilterra, la nazione più vasta e che esercita, di fatto, un’egemonia sul resto dell’Unione, peraltro anch’essa messa in pericolosa discussione dal recente referendum scozzese. Seguono la Scozia con 59 seggi, il Galles con 40, e l’Irlanda del Nord con 18. Ciascun collegio corrisponde a circa 70.000 elettori. Con l’uninominale secco chi ottiene poco più di un terzo dei voti può assicurarsi una maggioranza e formare così un governo.

Chi vince piglia tutto, insomma. E ci si rivede fra cinque anni. È così dal primo governo Attlee, dal secondo dopoguerra. L’impressionante, sostanziale continuità d’intenti fa i governi Labour e Tory succedutisi nel frattempo ha garantito l’applicazione di un manifesto neoliberista, anch’esso rigorosamente non scritto: quello di una depoliticizzazione dell’economia adottata poi da tutte le socialdemocrazie europee e la cui narrazione mediatica – qui, dove è stata brevettata in esclusiva da Tony Blair – ha ormai raggiunto livelli orwelliani. Se non fosse per questa maledetta crisi, la cui onda d’urto, per quanto frettolosamente soffocata con tagli e privatizzazioni, ora rischia di portare anche su queste isole l’incubo della democrazia proporzionale.

La staffetta Tory-Labour infatti, ridotti ormai a una sorta di coca e pepsi della dialettica neoliberista, è insidiata da ogni parte da una serie di partiti più piccoli, ciascuno espressione delle varie specificità di un malcontento che ci si ostina a far passare per antipolitico. Cominciarono cinque anni fa i Lib-dem, classificatisi terzi nelle scorse elezioni. Dopo un brevissimo tentennamento, il loro leader Nick Clegg, cosmopolita e convinto europeista a differenza di molti suoi colleghi di ogni colore, scelse di gettare il proprio peso dietro David Cameron, leader che, lo ricordiamo, quelle elezioni non vinse per venti seggi. È stato dunque solo grazie a Clegg che il ministro ultraliberista delle finanze George Osborne ha potuto cacciare la sua cicuta in gola agli strati più vulnerabili della popolazione.

A distanza di cinque anni, la precaria gestione Clegg del vaso di coccio Libdem in mezzo alle incudini dei conservatori è prevedibilmente fallimentare: il suo partito, bruciato soprattutto da una promessa non mantenuta – quella di eliminare le tasse universitarie che invece sono state più che triplicate (nei paesi a tradizione puritana mentire e non mantenere le promesse è peccato capitale, noi cattolici ce la caviamo di solito al massimo con tre avemarie) – rischia l’estinzione.

Nel frattempo è successo molto, moltissimo. L’Unione per un pelo non è colata a picco con l’uscita degli scozzesi. E l’incedere sulla scena di tre ex partitini che oggi rivaleggiano, seppur mediaticamente, con l’ortodossia bipartitica tradizionale è ormai realtà. Nel 2010 lo Scottish National Party (Snp), i verdi e l’Uk Independence Party (Ukip) ottenevano insieme appena il 6% dei voti. Questo è valso ai Verdi un unico seggio a Westminster e sei allo Snp nella devoluta Scozia. Questa volta si presentano ai sondaggi ciascuno con il più del 5%.

Ma la notizia davvero cattiva per Ed Miliband, oggetto di una forsennata campagna denigratoria alla quale sembra reagire con una certa decisione, è che sulla scia del referendum secessionista, perso per un soffio, il partito di Nicola Sturgeon sembra per la prima volta in grado di spazzare via il Labour dalla Scozia, tradizionalmente imprendibile roccaforte laburista. Simili sviluppi, sommati alla probabile quasi dissoluzione dei Libdem, significano la quasi certezza di un governo di coalizione dove sarà Sturgeon ad avere il dilemma che già fu di Clegg. Cosa senz’altro preferibile a uno scenario in cui al posto suo ci fosse Farage, il cui sgangherato carrozzone di euroscettici, xenofobi e ultrà conservatori pare fortunatamente rallentare la propria corsa.

Quel che è certo è che il bipolarismo britannico, finora così solerte nel lastricare l’autostrada al neoliberismo globale, pare aver fatto il suo tempo. Se da una parte la potenziale uscita dall’UE rappresenterebbe l’evidente rafforzamento della vocazione atlantista del paese, dall’altra la Gran Bretagna si avvicina riluttante al resto d’Europa.