Giorgio Manganelli immaginava che il lettore ideale dei cento microromanzi di Centuria fosse un uomo che sta precipitando da un altissimo grattacielo. Naufragi umani ordinari e mostruosi, quelli delle «centurie», che si ritrovano nell’immaginario richiamato dai libri di Régis Jauffret, scrittore ossessionato dalla mostruosa ordinarietà della tragedia nella condizione umana. L’autore francese aveva già esplorato diverse strade alla ricerca della misura più adatta a contenere le voci sofferenti dei suoi personaggi, ed era prevedibile che giungesse all’idea di un «romanzo della folla».

Era successo nel 2007 con Microfictions, cinquecento racconti di una pagina e mezzo, frammenti di quotidiana follia nati da voci spesso senza nome che si raccontano in prima persona: voci nevrotiche che appaiono il più delle volte distaccate dalle proprie stesse vite; amori, morti violente o accidentali, scene ridicole e insignificanti, invettive contro i propri cari.

Mille pagine dalle quali si usciva flaubertianamente dégoûté, e con la sensazione di essersi immedesimati per qualche ora in quel lettore immaginato da Manganelli. Dopo aver lavorato a libri molto diversi nella struttura ma non così distanti nella progettualità che li anima, (per esempio il riuscitissimo Lacrimosa del 2008, nel quale la voce narrante – tra le tante della folla – è quella dell’autore stesso che si mette a nudo in un immaginario carteggio con un’amante morta suicida) Jauffret ha deciso di tornare alle sue Microfictions, aggiornate stavolta con tutta la carica di depressione e ipocrisia che il decennio appena concluso ha lasciato sui volti – e nelle voci – dei cittadini europei contemporanei.

Il risultato, ora edito da Clichy (traduzione di Tommaso Gurrieri, pp.1018, € 25,00) con il titolo Microfictions (che confonde il lettore) aggiunge in copertina la dicitura «racconti» tradendo un’esplicita volontà dell’autore che per l’edizione Gallimard ha chiesto venisse apposta la scritta roman, proprio per inseguire la suggestione di un corpus polifonico, unitario e paradossalmente romanzesco.

Vi trovano posto, con la stessa lingua piana e cantilenante delle micronarrazioni del 2007, le voci dei terroristi, dei mariti abbandonati, delle mogli impazzite di rabbia e solitudine, e quelle di chi in pochi anni ha perso tutto, amore, lavoro, una casa: questa presenza di personaggi non del tutto esenti da richiami sociali più o meno espliciti differenzia le Microfictions 2018 da quelle precedenti, sciocchezzaio umano più esplicitamente rivolto a Flaubert, il cui richiamo, per Jauffret, deve intendersi come puramente filosofico: lo stile da rubrique des chiens écrasés fa pensare piuttosto al grande anarchico delle Nouvelles en trois lignes, Felix Fénéon, di cui raccoglie in parte lo spirito cinico.

Più installazione artistica che romanzo o raccolta di racconti – non a caso la disposizione delle «voci» segue un ordine alfabetico per titolo – il pericolo dell’ambizioso e conturbante Microfictions 2018 è di scegliersi bersagli troppo facili (il borghese europeo di oggi, le sue convinzioni, le sue perverse falsità) senza preoccuparsi di offrire una via d’uscita dal (proprio) disgusto.