Il ministro della Salute Roberto Speranza ha firmato un decreto con cui sarà bene familiarizzare subito. Il testo, infatti, indica i criteri da adottare nella fase due per stabilire se una o più regioni dovranno tornare al lockdown. Il documento riporta infatti gli indicatori relativi all’andamento dell’epidemia – nessuno si illude sparisca da sé – e alla capacità di risposta sanitaria che dovranno essere soddisfatti in tutte le regioni dopo il 4 maggio.

IL DOCUMENTO esamina tre aspetti: le attività di monitoraggio e di capacità diagnostica e la disponibilità di risorse sanitarie. E in molti casi gli obiettivi appaiono da subito irrealistici. Nell’attività di sorveglianza dell’epidemia, ogni regione dovrà garantire un flusso di dati abbastanza dettagliato da consentire le dovute analisi epidemiologiche. A regime, per almeno il 60% dei casi dovrà essere nota la data di insorgenza dei sintomi di Covid-19 senza la quale è difficile vigilare sull’evoluzione di un’epidemia. Oggi in molte regioni (soprattutto al sud) queste informazioni non sono pienamente disponibili.

Inoltre, le regioni dovranno ricevere un rapporto mensile (il decreto parla di «checklist») da almeno la metà delle Residenze sanitarie assistenziali del territorio e in almeno il 70% di queste non si dovranno rilevare criticità. Per avere un termine di confronto, un analogo monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità tra il 24 marzo e il 14 aprile ha ricevuto risposte solo dal 33% delle strutture. Sul piano della capacità diagnostica, le regioni dovranno dimostrare di fornire un tampone a ogni malato entro cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi. Attualmente ne occorrono otto (dati Iss).

IL SUPERAMENTO o meno di questi indicatori dipenderà in gran parte dalle risorse che saranno dedicate alle attività di prevenzione da parte delle Aziende sanitarie locali. Il decreto pone condizioni anche sul numero di operatori da dedicare alle attività di prelievo dei tamponi, rintracciamento dei contatti e quarantena: sarà necessario assicurare almeno un operatore ogni 10 mila abitanti. Ma non ci sono indicatori altrettanto precisi per la medicina di base, il cui smantellamento soprattutto in Lombardia si è rivelato un punto debole del servizio sanitario.

Oltre alle attività dei sanitari conterà anche l’evoluzione del contagio. Per evitare nuove zone rosse, il numero di nuovi casi settimanali dovrà essere stabile o in diminuzione. Anche se, scrive il ministero nel documento, «nei primi 15-20 giorni dopo la riapertura è atteso un aumento del numero di casi».

LE REGIONI dovranno dimostrare anche una disponibilità di posti letto in ospedale sufficiente a reggere nuove ondate epidemiche. I malati di Covid-19 non dovranno occupare più del 30% dei posti letto di terapia intensiva, che alla vigilia dell’emergenza erano circa cinquemila in tutto. Rispetto ad allora, molte regioni sono al di sopra di questa soglia: in Lombardia i pazienti Covid occupano ancora oltre il 70% dei posti disponibili, in Piemonte più del 60% e quasi il 40% in Liguria. È vero che i posti letto si stanno gradualmente liberando e lo sforzo organizzativo ha fatto quasi raddoppiare la disponibilità durante l’emergenza. Ma ciò è avvenuto al costo di stipare i malati anche nelle sale operatorie o in ospedali da campo, ed è verosimile che presto la capacità ospedaliera si riavvicini ai livelli precedenti.

OGNI SFORAMENTO rappresenterà un’allerta che porterà gli esperti dell’Iss a ricalcolare il rischio regione per regione. Se gli indicatori si riveleranno troppo difficili da rispettare, la scelta di tornare al lockdown sarà valutata dal ministero e dalla regione interessata. È possibile dunque che si avverino gli scenari «stop-and-go», con «fasi 1» e «fasi 2» a intermittenza, previsti da alcuni modelli sviluppati dagli epidemiologi dell’Imperial College di Londra.

Sarà decisiva la trasparenza e la verificabilità di questi indicatori, visto che avranno così gravi conseguenze sulla vita collettiva. La natura tutta politica dei numeri è emersa pienamente durante la pandemia, perché il lockdown ha ridotto drammaticamente la percezione diretta della realtà per la cittadinanza. I dati sono diventati il linguaggio universale che tutti abbiamo dovuto imparare e che devono rimanere un patrimonio comune.