Da un punto di vista simbolico e mitopoietico, il genius loci dell’Appia Antica appare strettamente legato al passato. La sua spiccata dimensione retrospettiva, tuttavia, non è mai stata sterile poiché ha mirato a dialogare con il presente attivando suggestivi, e spesso onirici, cortocircuiti temporali. Quello che dal Settecento in poi è stato l’habitat privilegiato per eruditi impegnati a ridare vita alla classicità in modi estetizzanti e alogici – si pensi alla visionaria ricostruzione della via consolare romana elaborata da Piranesi – ha continuato a funzionare, ancora tra anni cinquanta e sessanta del Novecento, da luogo d’incubazione per la neoavanguardia artistica della capitale.
Sullo stratificato suolo della regina viarum – nello specifico all’interno di un casolare situato a metà tra Porta San Sebastiano e la chiesa del Domine Quo Vadis – prese infatti avvio un singolare esperimento di casa d’arte aperta alla promozione delle tendenze d’avanguardia. Una galleria – denominata eloquentemente Appia Antica e attiva dal 1957 fino al 1961 – fu il motore iniziale di questa realtà che, nelle intenzioni degli organizzatori, non intendeva offrire solo mostre temporanee ma ambiva a porsi come un laboratorio creativo per le arti figurative, l’artigianato – ai locali espositivi era annesso un forno per la cottura della ceramica – e anche l’editoria. Parallelamente, nel biennio 1959-’60, venne data alle stampe una pubblicazione periodica anch’essa intitolata «Appia Antica» – uscita in soli due numeri e molto curata sia nella veste grafica sia nei contenuti – che, cosa non scontata per le coeve riviste d’arte italiane, si aprì alla documentazione delle più attuali ricerche europee ed extraeuropee.
Deus ex machina di un così articolato universo fu, non a caso, Emilio Villa, intellettuale non allineato, poeta, critico, studioso di filologia semitica e traduttore di Omero il quale, insieme a un manipolo di artisti suoi sodali, scelse di allontanarsi – sia concettualmente che materialmente – dalle compassate logiche dell’ufficialità artistica dell’Urbe per inoltrarsi in un’area della città allora eccentrica e isolata, già in parte inquinata dal fenomeno della speculazione edilizia ma comunque libera dai condizionamenti della critica istituzionale e del mercato.
Attorno a Villa e all’Appia Antica, nel tempo, si è andato a depositare un alone di leggenda generato dalla serrata sequenza di mostre in cui presero parte giovani destinati a diventare protagonisti dell’arte degli anni sessanta: sotto l’egida della galleria esordirono Mario Schifano, Renato Mambor, Cesare Tacchi e, tra gli altri, si avvicendarono in collettive Piero Manzoni, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Edgardo Mannucci, Ettore Colla, Giulio Turcato, Giuseppe Uncini.
Al di là del mito, il progetto espositivo-editoriale dell’Appia Antica non è mai stato oggetto di uno studio analitico specifico. La critica, andandosi a focalizzare in via esclusiva sulla carismatica ma ingombrante figura di Emilio Villa, ha infatti trascurato di far emergere le molte interessanti personalità che contribuirono a dare vita a una galleria-rivista d’eccezione e precocemente orientata a superare l’enfasi emotiva del tardo informale contemplando modi espressivi tendenti verso il monocromo.
La straordinarietà, ma anche la complessità, di quella felice stagione culturale è oggi rievocata nella mostra a cura di Nunzio Giustozzi, Un Atlante di Arte Nuova Emilio Villa e l’Appia Antica (fino al 19 settembre, catalogo Electa). In uno scenario affascinante e soprattutto affine a quello che fece da teatro alle gesta di Villa e compagni – il Complesso di Capo di Bove sull’Appia – è possibile imbattersi in opere dalla bellezza inattesa create da autori che è necessario riscoprire; così, oltre a rari lavori degli anni cinquanta di Bonalumi, Schifano e Uncini intrisi di esistenzialismo e di asciuttezza semantica, è difficile non rimanere colpiti dalla misurata affettazione dei manufatti polimaterici di Bruno Caraceni il quale, proprio in occasione della personale all’Appia Antica nel 1957, ottenne il plauso di una collezionista esigente come Peggy Guggenheim.
Allo stesso modo, nella raccolta saletta-Wunderkammer che accoglie la mostra, spicca il decorativismo bizantino di Enrico Cervelli, astrattista che negli anni precedenti la prematura scomparsa (1961) non solo fu uno degli interlocutori privilegiati di Emilio Villa ma, assieme alla compagna Liana Sisti, pose le premesse per l’avventura dell’Appia Antica. È poi importante sottolineare che, sulla scorta dell’ormai diffusa pratica curatoriale del re-enactment di mostre storiche, si è privilegiato esporre – laddove è stato possibile – opere precedentemente presentate alla galleria Appia Antica, oppure pubblicate sulle pagine dell’omonima rivista. Per frammenti viene dunque ricostruita la storia di un esperimento culturale che, seppur breve, ebbe fertili conseguenze.