«Caro zio Thomas, non avevi un lavoro, una moglie, dei figli. Ma avevi tempo per me. Eri il primo da cui correvo quando avevo bisogno d’aiuto. Per gli altri eri inutile, ma per me eri eccezionale». L’ultimo cortometraggio d’animazione della regista Regina Pessoa, Uncle Thomas, accounting for the days, è il ricordo di suo zio, una persona importante nella sua infanzia. L’autrice lo racconta nella sua gentilezza e nella sua fragilità, perché era un uomo buono, capace di darle affetto e di insegnarle a disegnare, ma solo ed emarginato, vittima di manie ed ossessioni. Emozionante, pieno di tenerezza e malinconia, realizzato in bianco e nero con l’aggiunta di tocchi di rosso, il film ha vinto quest’anno il premio della giuria al festival di Annecy, il concorso del festival d’animazione «Imaginaria» e il prestigioso Annie Awards 2020 come miglior cortometraggio d’animazione conferito ogni anno dai membri dell’ASIFA (l’Associazione internazionale di Film d’animazione) Hollywood.

Uncle Thomas prosegue il percorso autobiografico della regista portoghese, che nelle precedenti opere The night (1999), Tragic story with a happy ending (2005) e Kali, the little vampire (2012) – si è ispirata alla sua storia personale: «Ho avuto un’infanzia difficile», spiega. «Ho assistito a scene dure. Per questo mi sono sentita smarrita e fuori posto allora, e a volte ancora oggi». Nei suoi film Regina Pessoa racconta la paura e il dolore dei bambini, ma anche la ricerca di una via per liberarsi, per essere pienamente se stessi nella propria unicità e sensibilità. Così, le protagoniste delle sue prime pellicole sono bimbe dai grandi occhi spaventati. La piccola di The night deve affrontare il buio della notte, e ha accanto una figura materna che non è rassicurante, ma inquietante e angosciante. Mentre la bimba di Tragic story with a happy ending, rifiutata dagli altri perché il suo cuore batte troppo forte, con il tempo impara ad amarsi e alla fine scopre di essere speciale, di poter volare. Anche il piccolo vampiro Kali riuscirà a trovare la luce e a far pace con se stesso, quando capirà di poter dare qualcosa agli altri proprio grazie alla sua diversità. Uncle Thomas è un altro tassello di questo viaggio interiore: il racconto del legame profondo tra due persone affini, che riescono a riconoscersi e ad amarsi, trovando conforto alle loro solitudini.

Perché nei suoi film ha scelto di raccontare storie personali?
Perché devo credere alle storie che guardo, e sentivo di essere più credibile se raccontavo ciò che conoscevo. E anche per un’altra ragione. Sono stata molto toccata dalle vite dei miei, di mia madre e di mio padre. Hanno avuto un’esistenza dura, ma non potevano parlarne loro stessi, e ho voluto dar loro un omaggio, una piccola voce.

Nelle sue opere parla del dolore dell’infanzia. Un sentimento che molte persone conoscono, perché l’infanzia non è sempre un’esperienza felice…
Sì, mi sono sentita così da bambina. Per molte persone è lo stesso, sono sentimenti molto comuni. Specialmente da bambini e adolescenti siamo spesso strani, in imbarazzo. Questo rende i miei film universali. Ma è la mia esperienza personale, e questo li rende anche unici, perché questo ho provato io, in questo corpo, in questo mondo. Così ho realizzato i miei primi tre cortometraggi, una trilogia, sui temi della paura, della diversità e dell’infanzia, usando in tutti toni monocromatici e la tecnica dell’incisione. L’ho scelta perché la amo e per la mia formazione di pittrice. E anche perché è adatta a questi argomenti, esprime bene la percezione di essere a disagio. Mi piace la consistenza di questi materiali che credo riflettano anche i miei soggetti. In queste immagini vibranti non c’è niente di morbido e tranquillo, ma la sensazione di essere scomodi e fuori posto. Poi amo le luci e le ombre, e l’incisione le rende benissimo.

Nel suo primo cortometraggio, «The night», colpisce la solitudine della bambina e l’immagine della madre, perché è una madre che fa paura, sembra non avere gli occhi…
Sì, anche lei è fuori posto. Mia madre era così. Soffriva di schizofrenia, era una persona diversa. Avevo paura della notte, ma avevo anche paura di lei. Lei era parte della notte. Era solita apparire nella mia camera nel mezzo della notte, con una candela in mano. Quando dormivo e mi svegliavo con queste luci ero terrorizzata, e mi ci volevano trenta secondi per capire che era mia madre. Non ho inventato niente, tutto è avvenuto. È un film semplice e veritiero. È un soggetto molto comune quello di un bambino che ha paura del buio, ma questa è la mia versione, legata a mia madre.

«The night» racconta la paura e la solitudine. Ma nei film successivi c’è una progressione verso la speranza, dal buio alla luce…come si possono guarire, come ha guarito queste ferite?
Sì, c’è stato questo dolore nella mia infanzia, che mi ha perseguitato tanto. Con Kali, the little vampire ho finito una trilogia su questo tema iniziata con The night. In The night ho mostrato il personaggio, questa bambina che ha paura del buio, ma anche del mondo. In “Tragic story with a happy ending” la bimba è più grande, ma il problema persiste: è diversa dagli altri. E la soluzione è quella che sogniamo da piccoli, qualcosa di magico che ci salvi dal dolore. Così è come se alla protagonista crescessero le ali e volasse via. Può accadere nella nostra immaginazione, ma non nella vita reale. Così quando ho cominciato Kali, the little vampire ho pensato: «Parlo sempre della paura, della diversità, ma non sto risolvendo il problema nella realtà, solo nell’immaginazione!». E mi sono detta: «È il momento con questo film di chiudere un capitolo sull’infanzia, di far crescere il personaggio e fargli trovare il suo posto nel mondo». E questo per me significa andare verso la luce.

Come trova Kali il suo posto nel mondo?
Alla fine salva un bambino dall’essere travolto da un treno. Subito dopo il film finisce. Alcune persone pensavano che Kali fosse morto. Ma è un vampiro, e i vampiri non muoiono! E poi la sua voce è di Christopher Plummer, un uomo vecchio. Era un bambino, è cresciuto, e ora, da vecchio, racconta la sua storia.

Quindi c’è una trasformazione, un’evoluzione…
Sì. Quando ho cominciato questo cortometraggio mi stavo avvicinando ai quarant’anni, e avevo sempre la sensazione di non aver vissuto l’infanzia, che ci fosse ancora tempo per questa esperienza felice che non ho mai avuto. Ma a quarant’anni è diventato chiaro che no, l’infanzia era finita! Questo film rappresenta la liberazione, il lasciar andare questa bambina tormentata che ero. Era necessario accettare che ero adulta, che non sarei mai più stata una bambina. E questa presa di coscienza è stata importante per me.

Anche il suo ultimo film, «Uncle Thomas, accounting for the days» è una storia personale, però di una relazione positiva…
Sì, è un’opera autobiografica. Racconto di mio zio Thomas, con cui ho cominciato a disegnare molto piccola, con il carboncino, sulle pareti di casa. Mio zio non era sposato, e aveva tempo per i bambini. Era buono e gentile, e noi lo amavamo. Ma aveva le sue manie, era ossessionato dal fare calcoli. Fin da piccola capivo che aveva un lato oscuro che lo tormentava. Il film è sul rapporto con mio zio che era anche lui una persona diversa dagli altri, probabilmente non accettata o non del tutto capita nella comunità. È anche un po’ la storia della mia vita, perché mia madre, sua sorella, aveva la schizofrenia, e lui non era un malato mentale ma aveva una personalità ossessiva. È stato per me un omaggio a quest’uomo gentile e incompreso. Ho fatto mio questo motto: «Perché sono famose solo le persone ricche, potenti, o gli scienziati, che forse erano orribili nella loro vita personale? Forse non erano gentili e affettuosi. Voglio mostrare che non è necessario fare qualcosa di speciale per essere importanti per qualcuno».