Regina Cassolo Bracchi

 

C’è un canarino nella prima sala della mostra di Regina alla GAMeC di Bergamo: un canarino plasmato in gesso, con la sagoma affusolata e il corpo affettuosamente ingigantito. C’è lo stesso canarino, questa volta in bronzo, alla fine del percorso della mostra. Regina Cassolo Bracchi (1894-1974) lungo la sua vita ha voluto sempre la compagnia di un canarino: simbolo di un approccio libero e condotto con levità al proprio destino di artista sui generis e di scultrice. Regina ha vissuto la sua avventura al fianco delle avanguardie, dal secondo futurismo al movimento dell’arte concreta, con una disinvoltura che le ha permesso di giocare sorprendentemente d’anticipo. Ha vissuto senza ansie di protagonismo e intellettualismi, proteggendosi in un microcosmo dove poteva sfogare la sua fantasia sperimentale.
Era stata Lea Vergine a riscoprirla nella storica mostra milanese sull’«altra metà dell’avanguardia». Ecco le sue parole su Regina: «Qui non c’è posto per stucchevoli madrigali o per leziose semplicerie di collegio; qui è palese una forza squassante, ragione di schianti e di esaltazioni. Il che sta a significare il vigore di una posizione rivoluzionaria e non rivoltosa che ha innovato, con pienezza di autocoscienza».
Abbiamo poi reincontrato Regina nella bella mostra dedicata alle futuriste al MAN di Nuoro nel 2018. Chiara Gatti, la curatrice, ora ha affiancato Lorenzo Giusti, direttore della GAMeC, nella realizzazione di questa che si propone come una giusta consacrazione (fino al 28 agosto; da segnalare il bell’allestimento firmato Francesco Faccin). Infatti insieme al museo bergamasco è sceso in campo anche il Georges Pompidou parigino, con una mostra dedicata all’astrattismo al femminile, curata da Christine Macel, dove Regina occupa un posto centrale (Elles font l’abstraction. Une autre histoire de l’abstraction au 20e siècle, fino al 3 agosto). Il catalogo bergamasco, di imminente pubblicazione, è unico: strumento curatissimo, che restituisce tutta la varietà e la grazia di Regina.
È una sperimentatrice tranquilla, che si diverte e diverte, fin dall’inizio della sua avventura. Da Mede, paese natale in provincia di Pavia, dove molti suoi lavori sono custoditi in un piccolo museo a lei dedicato, si trasferisce nel 1921 a Milano per sposarsi con Luigi Bracchi, valtellinese, pittore di stampo ben più tradizionalista. All’esordio, però, espongono insieme alla Galleria del Senato: nel 1931. In quell’occasione il marito scrive parole amorevolmente pertinenti sull’arte di Regina. Il suo, annota, è «il risultato concreto di un’osservazione attenta dei fenomeni che sono alla base di ogni elemento formativo della natura». Nel 1934 Regina espone per la prima volta alla Biennale al fianco dei futuristi. Come sottolinea Giusti, «partecipò al movimento con il carico spontaneo della propria condizione di donna, moglie e artista sui generis… Del futurismo Regina fece proprio il principio del continuo rinnovamento ma non l’ideologica adesione a un linguaggio. In questa libertà c’è molto di contemporaneo».
Certamente il lavoro di Regina è contrassegnato da un primato e da un gusto per la manualità: per questo alla GAMeC ogni sala è un cambio di scena e sorprende la varietà di soluzioni che l’artista sperimenta e mette in campo, spesso anticipando i tempi. Sono divertite e incantate le sculture realizzate piegando la lamina di alluminio, come la Danzatrice (1930) o il Ritratto del nipote (1931-’33), a bassorilievo, con quella mise un po’ scompigliata che ispira simpatia.
Il percorso per arrivare alla scultura è stipato spesso di modellini di carta assemblati con gli spilli, secondo un metodo introdotto alla Bauhaus da Joseph Albers. Sono sculture leggere, volutamente precarie, dove però l’idea progettuale è già molto chiara. A volte, spiega Chiara Gatti, i modellini le servono per individuare con precisione i punti di ancoraggio e i tagli, visto che l’alluminio veniva piegato ma non poteva essere saldato. All’astrazione transita senza quasi senza darlo a vedere, come accade nel Paese del cieco (1935): infatti anche nei lavori astratti più che l’invenzione si percepisce sotto traccia lo spirito di osservazione, sempre fine, curioso e anche amorevole.
Durante la guerra, quando si era rifugiata in Valtellina, Regina aveva iniziato a indagare la natura con uno sguardo minuzioso: il risultato è costituito da una lunga serie di disegni nei quali cerca sempre le geometrie intrinseche nelle forme dei fiori e delle foglie. Le mancavano le matite colorate, così aveva fatto ricorso ai succhi ricavati dagli stessi soggetti che stava disegnando, per tracciare leggere sfumature.
Regina si spostava con disinvoltura da un’esperienza all’altra, restando fondamentalmente se stessa. La vediamo sfiorare il dadaismo, approdare all’arte concreta, sperimentare. in tempi non sospetti, persino la poesia visiva. «Attenti, se no butto all’aria anche la poesia, la scultura, l’ho già buttata, e mi ha ringraziata», scrive in un quadro pittorico-poetico del 1972.
Con meravigliosa sensibilità, qualche anno prima, nel 1966, era arrivata a tradurre graficamente il linguaggio del suo immancabile compagno di lavoro, il canarino. «Kirk kirk vrik rich svitz» si legge su una di queste tavole, disegnate con un segno delicato come un soffio. «Le minuscole orecchiette di Regina ricevono messaggi del suo canarino», aveva annotato il marito Luigi Brocchi. In realtà l’esperimento era anticipatore e molto fondato, tanto da suscitare l’interesse di un cibernetico, Silvio Ceccato, e di un famoso etologo, Danilo Mainardi.