Lentamente la produzione lettone giunge in Italia, dove finora del paese baltico era giunto ben poco. Sellerio aveva pubblicato nel 1995 La zattera di ghiaccio di Rudolfs Blaumanis, classico racconto di disastri marittimi, in un paesaggio gelido e sinistro. Mentre è da segnalare a Venezia il continuo lavoro della piccola casa editrice Damocle (a cui si deve la pubblicazione di pagine assai interessanti di Nora Ikstena e Janis Ziemelnieks, con altri autori in una Piccola biblioteca lettone curata da Paolo Pantaleo) Iperborea ha iniziato la sua ricognizione sul territorio con il notevole Come tessere di un domino di Zigmunds Skujins, uscito nel 2017, incantevole favola filosofica che ruota intorno a un continuo incrocio e scontro di tempi e culture, sullo sfondo della vicenda della contessa Waltraute von Brüggen, che si vede tornare dalla guerra un marito che più non riconosce, frutto di una chirurgia d’emergenza che ha messo insieme, stregonescamente, la parte di sotto del suo consorte, ferito da una bomba, montato per chirurgia con quella superiore di un fascinoso contadino.

Ora giunge in libreria il notevole Il pozzo di Regina Ezera (a cura di Margherita Carbonaro, che traduce con efficacia e firma la appassionata postfazione, Iperborea, pp. 347, € 18,50), classico della letteratura lettone uscito per la prima volta nel 1972. Come viene segnalato dalla traduttrice, al centro di questa trama sta un episodio autobiografico, una passione per il drammaturgo Gunars Priede, a cui l’autrice inviò un mannello di lettere scritte nel corso di anni, per riaverle subito indietro. Il paesaggio è chiave di lettura di una storia di amore impossibile, che lega Laura all’acqua, a quel fiume Daugava sulle cui rive l’autrice visse buona parte della sua vita, e che nella finzione romanzesca diventa un lago. L’estate, stagione di notti bianche, di vita all’aperto, di continui prodigi della natura, vede l’arrivo dalla città di Rudolfs, medico, che giunge in una campagna fuori dal tempo. Incontra Laura, la maestra locale, con i suoi due figli; il marito di lei si è reso colpevole di omicidio, è da tempo in carcere. Sulla sua vita pesava uno stigma, una condanna, per cui fino dall’infanzia, egli era apparentato al padre, legato ad azioni di violenza. L’amore divampa sullo sfondo di una esistenza quotidiana descritta minuziosamente, con capacità pittorica di rendere la natura. Colpisce soprattutto il talento dell’autrice a dipanare la vicenda in una vita di tutti i giorni opaca, avvolgente, ripetitiva fino all’ossessione. L’acqua dà infatti il ritmo alla narrazione, in un paesaggio in cui la terra è continuamente messa in discussione, da quella distesa che il nome popolare indica come «la biscia», in omaggio a un animale che i popoli baltici, fino da tempi antichi, ritennero sacro. Da questo romanzo Varis Brasla e Gunars Cilinski (che interpretava il ruolo del protagonista), trassero un fortunato film nel 1976, che venne pubblicizzato come «il più grande melodramma lettone»