Secondo il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio, il despota egiziano Al Sisi avrebbe dichiarato: «Giulio Regeni era uno di noi». Cosa significhi una simile frase, tanto offensiva quanto spaventosa, è difficile a dirsi. Si potrebbe ipotizzare che quell’affermazione si riferisca al comune destino del ricercatore italiano e delle migliaia di egiziani scomparsi, torturati e uccisi.

Ma è improbabile che Al Sisi intendesse stabilire quel parallelismo, finendo così col denunciare le responsabilità criminali del regime di cui è massima espressione.

Deve pensarsi, piuttosto, che quella incredibile definizione sia il più recente – e non necessariamente l’ultimo – atto di una sequenza che ha indicato via via Giulio Regeni come spia di questa o quella potenza straniera, agente provocatore, corruttore di cittadini egiziani, nonché consumatore di sostanze stupefacenti e titolare di uno stile di vita perlomeno ambiguo. Ma questo riguarda Al Sisi, e il suo sistema di potere e di propaganda.

Di fronte a ciò, qual è oggi l’atteggiamento del governo italiano? Deve notarsi innanzitutto il suo incessante, quasi febbrile, attivismo. Negli ultimi quaranta giorni ben tre ministri della Repubblica (Interno, Esteri e Sviluppo Economico e del Lavoro) si sono recati in Egitto in visita ufficiale e tutt’e tre le volte si è venuto a sapere, con modalità più o meno formali, che fra i temi degli incontri c’è stata la sorte di Giulio Regeni. Eppure, nessuna informazione inedita, nessun impegno concreto, nessun tangibile spiraglio per l’accertamento della verità. Noi, che seguiamo questa storia sin dall’inizio, abbiamo ripetutamente criticato il comportamento dei precedenti governi di centro-sinistra, insistendo sulla inconcludenza che li ha connotati.

Ma ora c’è quasi da rimpiangere la svagatezza e le omissioni di alcune risposte dei precedenti ministri degli Esteri al confronto con l’amicizia verso un regime liberticida, ostentata dalle parole e dai comportamenti dell’attuale esecutivo. Si consideri solo, come ha ricordato il Foglio di ieri, il formidabile rovesciamento delle parti nel passaggio di uno dei partner della coalizione gialloverde dall’opposizione al governo. A pochi giorni dalla morte di Giulio Regeni, l’allora responsabile Esteri del partito 5stelle, Manlio Di Stefano, invocava l’apertura di una commissione d’inchiesta Onu per accertare fatti e responsabili, intimava al governo Renzi di interrompere ogni relazione diplomatica con l’Egitto per non «macchiarsi ulteriormente», chiosava che gli ammiccamenti ad Al Sisi fossero «il prezzo che oggi l’Italia paga della sua politica estera senza scrupoli, intessendo affari sporchi con i regimi in cui viene applicata una repressione feroce, di cui stavolta, se le notizie emerse dovessero essere confermate, a caderne vittima è stato Giulio Regeni». Quel Manlio Di Stefano, appena citato, è verosimilmente lo stesso Manlio Di Stefano che, diventato sottosegretario del ministero degli Esteri, il mese scorso così rispondeva a un’interrogazione parlamentare: «L’arrivo dell’ambasciatore italiano Cantini a Il Cairo ha consentito di portare avanti un’assidua azione di sensibilizzazione nei confronti delle autorità egiziane, a tutti i livelli, che allo stallo nelle indagini dell’anno e mezzo precedente ha fatto seguire risultati positivi, non scontati». Non è un semplice problema di coerenza o delle asprezze, o presunte tali, del passaggio dallo stato di movimento a quello di istituzione. Piuttosto, è un caso esemplare di dissimulazione politica. La semplice verità è che dopo l’insediamento dell’ambasciatore Cantini a Il Cairo nulla, proprio nulla, è cambiato. E nessun risultato positivo, proprio nessuno, è stato conseguito.

Possiamo spingerci fino a dire che non siamo qui in presenza della tutela di informazioni riservate, di dossier ancora al vaglio degli investigatori o di fascicoli tuttora protetti sulle scrivanie di pubblici ministeri. Qui la segretezza sottintesa dietro l’evocazione della continua e proficua interlocuzione con le autorità egiziane che consentirebbe quei «nuovi e importanti progressi nella cooperazione tra organi investigativi sul caso Regeni» rimanda a una cosmetica del nulla. E dell’uguale. Il governo del cambiamento, almeno in questo campo, non ha cambiato – appunto – nulla. La torpida inerzia degli esecutivi precedenti prosegue e si perfeziona nella torpida inerzia di quello attuale: solo più euforicamente rivendicata.