Giulio Regeni era un brillante accademico, un pasoliniano appassionato, un ricercatore dedicato alla comprensione non solo delle rivolte del 2011 in Medio oriente ma anche dell’internazionalismo.

Perché uno studioso così accurato e meticoloso è stato ucciso tanto brutalmente in Egitto?

Era nel mirino delle forze di sicurezza egiziane in quanto straniero, notato nelle sue ricerche su sindacati indipendenti e reti alternative. Gli inquirenti italiani sarebbero arrivati a questa conclusione indagando sulla riunione dell’11 dicembre 2015 a cui Regeni aveva preso parte e dove forse era stato notato. Anche i suoi amici hanno confermato, nell’interrogatorio alla procura di Roma, che Giulio fosse spaventato.

Il dottorando aveva fatto sapere al manifesto di pubblicare il report di quella riunione con uno pesudonimo. Una richiesta importante perché, certo, di per sé non implica la paura per una minaccia determinata ma una preoccupazione più generale.
In un articolo che era stato pubblicato in precedenza dal manifesto sullo stesso argomento, gli autori non avevano chiesto di utilizzare uno pseudonimo. La richiesta è stata invece formulata alla fine dello scorso anno. Questo vuol dire che deve essere intervenuto qualcosa che ha reso le attività di Giulio Regeni più soggette a un pericolo generico che in precedenza.

Tutte queste ricostruzioni indiziarie però ancora non bastano per dipingere Giulio come un pericolo per le autorità egiziane né arrivano dalla procura di Giza – l’unica istituzione apparentemente onesta in questa vicenda orribile – le conferme che esistano intercettazioni delle telefonate di Giulio precedenti al 25 gennaio. Questo particolare sarebbe di primaria importanza per spiegare le cause del suo arresto.

Per ora, appare certo che Regeni è stato colpito proprio perché straniero e perché partecipava a riunioni di movimenti alternativi.

Con lui i servizi o la polizia egiziana volevano colpire tutti gli stranieri critici che arrivano al Cairo con un semplice visto turistico e poi «fanno» attività di informazione o di ricerca.

La seconda domanda che resta senza risposte è: della miriade di gruppi paramilitari attivi in Egitto chi lo ha ucciso?

Secondo le ultime ricostruzioni, basate anche sulle celle a cui sarebbe rimasto agganciato il suo telefonino, Giulio sarebbe stato prelevato sotto la sua casa o immediatamente nei pressi, e non sarebbe mai arrivato in Meidan Falaki nei pressi del ristorante Gad dove aveva appuntamento con il suo supervisor informale, il docente dell’Università britannica del Cairo, Gennaro Gervasio. Sarebbero dovuti andare insieme a casa dell’anziano Hassamnein Kahek.

A prelevare il dottorando sarebbero stati degli uomini in borghese, come confermato da un giovane testimone oculare, mentre un venditore nelle vicinanze della sua abitazione a Doqqi, avrebbe visto già la polizia entrare nel suo palazzo alcuni giorni prima dell’arresto, quando il giovane non era in casa.

Da qui è difficile dire se si trattasse di semplici agenti della polizia in borghese, di uomini dell’Intelligence civile o militare, o direttamente agenti della Sicurezza centrale o della Sicurezza di Stato. Stabilire quale apparato lo abbia preso è un punto importante per risalire alla catena di responsabilità.

È possibile anche che si sia trattato di vari gruppi paramilitari, implicati nell’arresto, detenzione e tortura di Giulio.

Non è da escludere nemmeno che nel suo arresto siano stati coinvolti piccoli criminali infiltrati dalla polizia. Gente che ai tempi delle rivolte circolava con sciabole e catene per impaurire tutti, anche i pacifici comitati popolari di autodifesa che volevano mettere pace nelle strade.