Fiumicello è blindata per i funerali di Giulio Regeni che si svolgono oggi alle 14. Attese centinaia di persone nel paesino in provincia di Udine per l’ultimo saluto al giovane ricercatore arrestato, torturato e ucciso al Cairo. Ad accogliere la salma ieri sera c’era già una piccola folla, radunata nella chiesa di San Lorenzo.

La verità sull’omicidio di Giulio è ancora lontana, e quasi tutte le piste proposte in questi giorni hanno tutta l’aria di un depistaggio. Una cosa è certa: Giulio è stato arrestato e ucciso dalla polizia. Resta da stabilire se sia stato arrestato intenzionalmente o per caso. Le indiscrezioni di stampa che hanno riferito di intercettazioni precedenti al 25 gennaio e di una azione della polizia che avrebbe preso il giovane ricercatore nei pressi della sua abitazione sono state smentite dalla procura di Giza: «Non sappiamo da dove avrebbero preso queste notizie». È però possibile che Giulio non abbia avuto il tempo di prendere la metro che da Behoos, dove si trovava casa sua, doveva portarlo a Mohammed Naguib nel centro del Cairo.

Anche le indagini italiane del pm Sergio Colaiocco tenderebbero a confermare l’ipotesi che Giulio fosse controllato dai Servizi. Tre ricercatori italiani, rientrati dal Cairo, avrebbero riferito al pm che Regeni sarebbe stato fotografato l’11 dicembre scorso, proprio durante l’assemblea sindacale a cui stava prendendo parte, unico straniero che «prendeva appunti» nel parapiglia generale, materiale che ha arricchito l’articolo pubblicato postumo dal manifesto. I giovani hanno anche affermato che Giulio fosse «spaventato» anche se non c’era una minaccia chiara per la sua attività di ricerca. Questo lo avrebbe spinto a chiedere di utilizzare uno pseudonimo per la pubblicazione del suo ultimo articolo. Vista la capillarità della sorveglianza, è inverosimile che gli 007 egiziani avessero bisogno di leggere la prima versione dell’articolo, pubblicato sotto pseudonimo da Nena News.

Non è chiaro però perché gli investigatori italiani e i Ros in Egitto si concentrino su una singola riunione. Regeni faceva ricerca sul campo da tempo e potrebbe essere stato notato in qualsiasi altro momento. In più, questo confermerebbe che le autorità egiziane stanno dando un aiuto davvero minimo al team investigativo italiano al Cairo, tanto da costringere gli inquirenti a concentrarsi sull’unico elemento noto pubblicamente: la partecipazione alla riunione sindacale dell’11 dicembre scorso.
Gli inquirenti egiziani stanno forgiando invece un quadro su misura che descrive Regeni come una «spia di sinistra», un insulto che in Egitto forse suona meglio solo dell’accusa di omosessualità. Per questo, nonostante tutti gli elementi, molti dei quali falsi, che sono emersi fin qui, ancora non c’è un quadro indiziario abbastanza forte da accreditare la pista dell’arresto mirato.

Però anche la pista dell’arresto casuale durante un assembramento altrettanto casuale, finito nella morte di un ricercatore scomodo, ieri ha iniziato a vacillare. Non c’erano manifestazioni quella sera e sulla stampa egiziana nessuno ha fatto i nomi di altri arrestati, che quindi non esistono.

Così sembra più plausibile l’ipotesi dell’arresto mirato di uno straniero. Se esistono davvero delle intercettazioni è possibile anche che chi ascoltava Giulio lo avesse scambiato per inglese considerando sia il suo accento sia la sua affiliazione all’Università americana del Cairo (Auc) anche se evidentemente al momento dell’identificazione, se c’è mai stata, la nazionalità italiana è saltata fuori. Sembra però che le autorità egiziane se ne siano preoccupate solo quando il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha chiamato il suo omologo, Sameh Shokry, ben sei giorni dopo la sua scomparsa, quando Giulio forse era già morto.

E qui si arriva al punto ancora oscuro dell’inchiesta. Perché non è stata resa immediatamente pubblica, su tutti i media, la notizia della scomparsa di Giulio Regeni? Emerge che le autorità egiziane non avevano preso sul serio le richieste che venivano dall’ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, di spiegazioni sulla sparizione del giovane dottorando. Per ben due giorni il ministro dell’Interno Ghaffar non avrebbe risposto. Fino al 31 gennaio, quando la stampa è stata allertata, non è ancora chiaro cosa sia avvenuto.