Non ci si aspettava una svolta in politica estera dall’audizione in notturna del presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Ma nemmeno il silenzio sul pacchetto di armi in partenza verso l’Egitto nel prossimo futuro, con le due fregate Fremm Fincantieri apripista di contratti tra i nove e gli 11 miliardi di dollari.

Un’enormità sottolineata in chiusura dal presidente della Commissione, il deputato di LeU Erasmo Palazzotto, che fanno dell’Egitto «un partner strategico nel Mediterraneo, il principale» nonostante la natura intrinseca del regime egiziano.

IERI LE REAZIONI del mondo politico riflettevano le appartenenze politiche: i senatori del M5S in una nota si dicevano speranzosi che «questa strategia dia presto i suoi frutti, a partire dall’incontro tra magistrati italiani e ed egiziani previsto per il primo luglio». Il Pd, con la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, promette «di alzare il livello di pressione» sull’Egitto alla vigilia dell’incontro tra procure che ruoterà intorno alla disattesa rogatoria italiana dell’aprile 2019.

Più dura Sinistra italiana. «Continuo a credere che la scelta di vendere armamenti all’Egitto sia un grande errore», ha detto il deputato Nicola Fratoianni a Rai3, ricordando che una legge dello Stato, la 185/90, vieta di vendere armi a paesi in guerra o violatori dei diritti umani e suggerendo di ricorrere a una classica strategia diplomatica: «Prima ci dite quello che ci dovete dire, tanto per cominciare ci date gli indirizzi dei cinque ufficiali sospettati dell’arresto, delle torture e dell’omicidio di Giulio. Poi vi arrivano le armi».

L’OPPOSTO della strategia del governo Conte 2, ideatore di una nuova scuola che, chissà, potrebbe rivoluzionare i rapporti internazionali: si fanno affari e si intensifica il business per farsi amica la riottosa controparte, così che magari ceda e consegni qualcosa di concreto.

Andiamolo a dire a paesi devastati da embargo e sanzioni, a quelli con cui la diplomazia “dolce” non è stata mai applicata, ai cubani, gli iraniani, gli iracheni. Loro venivano/vengono sanzionati (o bombardati) per costringerli ad adeguarsi agli interessi altrui.

L’EGITTO NO. L’Egitto va coccolato, anche se è chiaro che dal regime non arriverà aiuto. Perché dare quell’aiuto nelle indagini significherebbe ammettere che il sistema di potere post-golpe di Abdel Fattah al-Sisi è un sistema fondato sul monopolio della forza bruta di esercito e servizi segreti, i due corpi che danno legittimazione a un presidente senza partito né base elettorale propria.

Consegnare i responsabili materiali della morte di Regeni – e la Procura di Roma ne ha individuati almeno cinque, con un lavoro indefesso e straordinario, applaudito giovedì notte dai membri della Commissione e da Conte – significa consegnare simbolicamente il mandante: il regime, abile tessitore di una macchina del controllo sociale e della repressione quasi senza pari.

Quel regime e il suo apparato repressivo ricevono oggi nuova legittimazione dall’Italia che lo considera abbastanza alleato e abbastanza affidabile da vendergli due fregate Fremm da 1,2 miliardi.

PER QUESTO LE PAROLE di Conte (per quanto si voglia credere, e non c’è motivo di dubitarne, che continui a chiedere ad al-Sisi collaborazione e verità sulla morte di Regeni) non muovono di un millimetro la battaglia per la giustizia, tornata sulle spalle della Procura di Roma, che tra dieci giorni discuterà con gli investigatori egiziani del silenzio assordante sulla rogatoria di 14 mesi fa, che chiedeva conto, tra l’altro, della presenza a Nairobi nell’agosto 2017 di uno dei cinque indagati, il maggiore Sharif: secondo un testimone avrebbe raccontato dettagli sul sequestro di Giulio a un pranzo.

QUELLO CHE gli investigatori italiani vogliono – e che è stato ribadito giovedì sera dalla vice presidente della Commissione Deborah Serracchiani – è il domicilio legale dei cinque membri dei servizi egiziani iscritti nel registro degli indagati per sequestro e tortura. Così da poterli processare in Italia, in contumacia.

Su questo Conte non ha fatto promesse: pur assumendosi la responsabilità dei mancati progressi, nella sessione pubblica non è stato in grado di fornire un solo elemento che faccia immaginare una qualche svolta, anche minima, nelle indagini. Il premier si rifugia nel primo luglio: è da quell’incontro tra procure che si auspica di ricevere una «manifestazione tangibile di volontà» sul caso Regeni, come chiesto nella telefonata del 7 giugno ad al-Sisi, motivo della sua convocazione da parte della Commissione d’inchiesta.

Unica forma di “pressione” è l’assenza di visite di Stato ufficiali tra Italia ed Egitto (come dimenticare quelle sfavillanti dell’allora premier Renzi), ma di ritirare l’ambasciatore non se ne parla: «Mantenere un’interlocuzione costante permette di esigere rispetto».