Sono in rapida crescitala tensione politica e l’attenzione mediatica sui tre referendum indetti dalla Cgil e ormai conosciuti come referendum sul Jobs Act.

La materia è invero importantissima perché quei quesiti referendari vogliono reintrodurre stabilità e dignità nel lavoro ricostituendo la fondamentale tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e abolendo quella forma estrema di precarizzazione e mercificazione del lavoro che sono i voucher.

Di minore importanza, ma comunque significativo, è anche il terzo referendum che consolida la responsabilità dei committenti e di tutti gli appaltatori e subappaltatori nei processi produttivi.

Quello che si prepara è uno scontro ideologico fra la visuale di chi ritiene inseparabili progresso, produzione e dignità dei lavoratori e quella liberista per la quale il lavoratore come persona non è nulla, è solo una merce, uno strumento «usa e getta».

Ormai gli inganni del neoliberismo sono chiari a tutti come pure le conseguenze della politica renziana riconoscibili nella povertà crescente dei lavoratori, nella perdita di dignità, nella precarizzazione aumentata e non diminuita. Ecco perché il governo Renzi e i suoi prestanome temono moltissimo questo nuovo confronto con l’opinione pubblica, perché ben sanno che la disfatta del 4 dicembre verrebbe replicata senza possibilità di appello.

Di di qui l’invocazione di ogni sorta di rimedio: il ministro Poletti, nel suo primitivismo, ha invocato elezioni politiche immediate che comporterebbero il rinvio della prova referendaria, mentre gli altri politici, e soprattutto i loro perfidi consiglieri giuridici, dimostrano di puntare su una sentenza della Corte costituzionale che eviti il referendum che più lì terrorizza. Quello che per i lavoratori ripristinerebbe l’articolo 18 nella originaria formulazione della Statuto e lo estenderebbe altresì alle imprese commerciali e industriali fino alla soglia occupazionale dei 5 dipendenti attualmente valida solo per le imprese agricole.

All’avvicinarsi dell’udienza della Corte sull’ammissibilità dei tre referendum, prevista per il giorno 11 gennaio, sta crescendo la pressione mediatica perché la Corte dichiari inammissibile il quesito referendario sull’articolo 18.

Addirittura gli organi di stampa annunziano che quest’orientamento sarebbe già stato acquisito dalla Corte sulla base di un concetto, banale quanto infondato, che il quesito referendario sull’art. 18 sarebbe inammissibile perché non «abrogativo» ma «propositivo». Ciò in quanto il restaurato articolo 18 verrebbe esteso, come già detto, alle imprese commerciali e industriali con più di 5 dipendenti.

Quello che vogliamo allora sottolineare è che un tale argomento non è sostenibile perché già superato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale ed esattamente dalla sentenza N. 41 /2003 che dichiarò ammissibile il referendum che ampliava l’applicabilità della tutela dell’articolo 18 al di sotto dei 16 dipendenti e lo estendeva addirittura fino all’impresa con un solo dipendente.

In altre parole, tradizionalmente, l’applicabilità della reintegra per licenziamento ingiustificato, ossia dell’art. 18, si fermava di fronte a due soglie: quella dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali e quella inferiore di 5 dipendenti per le imprese agricole. Il quesito del referendum del 2003 proponeva di abolire entrambe le soglie, sicché tutte le imprese, commerciali, industriali ed agricole, anche con un solo dipendente, sarebbero divenute soggette all’art. 18 e quindi alla sanzione di reintegra.

Con il quesito del 2016, invece, salta un solo limite, quello dei 15 dipendenti per le imprese commerciali ed industriali, sicché l’unico limite numerico ora valido anche per loro sarebbe quello dei 5 dipendenti, come per le imprese agricole. Risulta evidente che l’argomento di opporre un referendum «abrogativo» a uno «propositivo» è un vero non senso: se ciò che si abroga è costituito da uno o più limiti di applicabilità della norma, è automatico che, una volta abolito un limite alla regola, questa si espanda a un nuovo territorio e che se tutti i limiti vengono aboliti divenga regola generale.

In altre parole «abrogativo» e «propositivo» sono solo le due facce di una stessa medaglia. Orbene se la Corte con la sentenza n.41 /2003 ha ritenuto ammissibile il quesito referendario che chiedeva di abrogare due limiti ( quello dei 15 e quello dei 5 dipendenti) a maggior ragione dovrà ritenere ammissibile un quesito che ne elimina solo uno dei due. Altrimenti la Corte smentirebbe se stessa.

Cosí come, va pur detto, smentirebbe la sua sentenza n. 1/ 2014 che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale Calderoli, meglio nota come «Porcellum», qualora nell’imminente udienza del 24 gennaio non dichiarasse incostituzionale anche la legge elettorale «Italicum» che presenta i medesimi vizi di incostituzionalità.

Nel breve giro di un mese la Corte costituzionale è chiamata a dare due risposte decisive da un punto di vista politico, ma il suo giudizio dovrà essere ispirato, come è sempre stato, a razionalità, indipendenza e rigore giuridico. Tutti i riflettori sono puntati su di lei.