C’è agitazione tra gli avversari della riforma costituzionale, che martedì sarà approvata in seconda lettura dal senato. Al comitato del No si teme che al governo possa riuscire un’ennesima forzatura: la convocazione del referendum confermativo – per il quale Renzi ha interesse a un’alta partecipazione – nello stesso giorno delle prossime amministrative. Una strada impercorribile, per chi conosce la legge del 1970 che regola i referendum; ma la notizia che il segretario generale di palazzo Chigi Paolo Aquilanti abbia «perorato la causa dell’armonizzazione del referendum con le comunali», riferita in aula dal senatore Mario Mauro, spaventa ugualmente. Perché l’abile Aquilanti è considerato in grado di trovare qualsiasi soluzione tecnica – è grazie alle sue invenzioni che il disegno di legge di revisione costituzionale ha scavalcato le insidie dell’ostruzionismo. Renzi in realtà ha detto più volte che il referendum per il sì o il no alla riforma costituzionale si terrà «ragionevolmente» in ottobre, e così anche la ministra Boschi. Ci vorrebbe una seria forzatura rispetto alla legge e ai precedenti per anticipare la consultazione. Ma non sarebbe la prima. La data possibile per l’election day amministrative più referendum è una sola, il 19 giugno.

L’aspetto interessante della vicenda è che la possibilità di impedire questa forzatura è quasi interamente nelle mani degli stessi promotori del comitato per il no. Se infatti si affretteranno a depositare alla Corte di cassazione l’annuncio della raccolta delle firme per promuovere il referendum, alla maggioranza renziana non basterà depositare la stessa richiesta da parte dei senatori o dei deputati per accelerare i tempi.
Uno sguardo al calendario. Il disegno di legge di revisione costituzionale potrà essere approvato definitivamente dalla camera non prima del 14 aprile. La legge potrà essere pubblicata il 18 in Gazzetta ufficiale, con il previsto avvertimento che non essendo stata raggiunta la maggioranza dei due terzi si potrà dare luogo al referendum. Facciamo due ipotesi. Se la forzatura voluta dal governo – che si suppone stia perorando il segretario generale di palazzo Chigi – andrà in porto, la Cassazione si accontenterà della richiesta dei parlamentari filo governativi, non aspetterà i tre mesi previsti per eventuali altre richieste, «brucerà» anche i 30 giorni previsti per le verifiche e già il 22 aprile ammetterà la consultazione. A quel punto il primo consiglio dei ministri convocherà le urne il prima possibile, (tra i 50 e i 70 giorni), appunto il 19 giugno.

Ma è un’ipotesi che non tiene conto che un gruppo di cittadini – il comitato del no – può decidere di proporre la raccolta di 500mila firme per giungere per quella via al referendum. La richiesta è un atto ufficiale: permette la costituzione formale dei comitati e viene pubblicato in Gazzetta ufficiale. I precedenti in questo caso pesano particolarmente, perché sono solo due. Nel 2006 contro la devolution il centrosinistra depositò le firme dei cittadini pochi giorni prima della scadenza dei tre mesi. Nel 2001, contro la riforma del Titolo V, la Casa delle libertà annunciò l’intenzione di raccogliere le firme, la Cassazione ammise i referendum appena depositata la richiesta dei parlamentari, ma il governo attese comunque tre mesi per indire il referendum. Attese invano, perché le firme non furono raccolte, ma il presidente del Consiglio Amato (raffinato costituzionalista ora alla Consulta) spiegò che «non si può interrompere la procedura senza violare i diritti costituzionali dei promotori». Tornando al calendario, in questa seconda ipotesi il referendum non potrebbe tenersi prima del 18 settembre. Poi certo c’è il dibattito nel comitato del no sull’opportunità, e la praticabilità, di raccogliere effettivamente le firme dei cittadini, atteso che quelle dei parlamentari di opposizione sono già garantite. Ma è un’altra questione.