Confesso di non essere per nulla entusiasta del voto per un referendum indetto su iniziativa di un gruppo di senatori alcuni dei quali spinti da ragioni più politiche che costituzionali (basti pensare ai nove firmatari leghisti) o che avevano votato in aula a favore della revisione.

Il disagio è aumentato dal fatto che nel fronte del No sono schierati molti amici e colleghi con i quali ho condiviso le campagne per respingere le «grandi riforme costituzionali» tentate da Berlusconi e da Renzi che modificavano circa un terzo della Costituzione.

E allora comincio con il dire che quanto al metodo la revisione proposta è circoscritta e puntuale e quindi approvata dal Parlamento non in violazione dell’art. 138 della Costituzione.

Nel merito ho potuto verificare di avere scritto, a partire dal 1995 in più occasioni, che uno dei problemi (ovviamente non l’unico) che incide sul cattivo funzionamento del Parlamento italiano è il suo carattere pletorico e l’esistenza dei cosiddetti peones, parlamentari che non brillano né per presenza né per iniziativa e in definitiva contribuiscono ad offuscare l’immagine del Parlamento agli occhi dei cittadini-elettori.

La comparazione con gli altri ordinamenti democratici non smentisce affatto questa considerazione, sempre che venga fatta correttamente in riferimento a paesi con popolazione simile alla nostra e tenendo conto di tutti i parlamentari elettivi e che, pur appartenendo a due Camere, esercitino le stesse funzioni.

Così facendo si può verificare che in Italia il rapporto parlamentari elettivi/abitanti è di 1/64.000 e con la riduzione diventerebbe di 1/101.000, numero che sarebbe inferiore tra i grandi paesi democratici europei solo a quello della Spagna.

Aggiungo che trovo priva di pregio e, se estremizzata, pericolosa la motivazione per il Si relativa al contenimento dei costi.

Ma mi pare difficile contestare che l’autorevolezza del Parlamento potrebbe essere rafforzata da una rappresentanza più qualificata e fornita di efficaci strumenti di supporto.

Purtroppo mi pare che la campagna del No, come ha già rilevato De Fiores nel suo articolo del 30 agosto, argomenti come se il Parlamento goda di buona salute e la sua centralità sia garantita, il contrario di quel che accade da qualche decennio.

E allora bisognerebbe che il costituzionalismo progressista e la sinistra fossero in grado di fare proposte di riforma dell’assetto e del funzionamento del Parlamento al fine di ricostruirne la centralità, come hanno tentato di fare in passato, senza lasciare la bandierina del cambiamento al populismo o alla destra ultranazionalista.

Trovo quindi puramente distruttiva una posizione che si limiti a dichiarare che le riforme di contrappeso alla riduzione del numero concordate nell’attuale maggioranza non si faranno comunque, perché se è così non resterebbe che alzare bandiera bianca e prepararci al peggio.

Al contrario ritengo che debba essere perseguito l’obiettivo del cambiamento del sistema elettorale in senso proporzionale.

A questo proposito credo che l’atteggiamento più produttivo sia quello di apprezzare il disegno di legge Brescia che elimina la quota maggioritaria (rendendo praticamente identico in caso di riduzione il numero dei parlamentari da attribuire con la proporzionale a quello previsto dall’attuale Rosatellum), l’obbrobrio del voto congiunto (di lista e nel collegio uninominale) e le coalizioni farlocche che si disfano all’indomani del voto (come ha fatto la Lega dopo le elezioni del 2018).

Nello stesso tempo va fatta una battaglia critica per l’abbandono delle liste bloccate che ha riempito il Parlamento di persone di stretta fiducia del leader di turno e spesso di scarsa qualità, frustrando la libertà di scelta e di controllo degli elettori, e per una riduzione della soglia di sbarramento al 3% (quella attuale non ha impedito l’accesso di piccolissimi partiti coalizzati proprio grazie ai candidati nella quota maggioritaria).

Altrettanto importante è sostenere una legge di attuazione dell’art. 49 Cost. che stabilisca principi e criteri democratici per la selezione delle candidature da parte dei partiti.

Sono poi indispensabili alcune revisioni costituzionali (equiparazione dell’elettorato delle Camere, riduzione del numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica, base circoscrizionale per l’elezione del Senato) già oggetto di disegni di legge costituzionali e modifiche dei regolamenti parlamentari.

Infine perché non riprendere la battaglia storica per il monocameralismo che superi l’attuale assetto, quasi unico al mondo, di bicameralismo perfetto?

In definitiva spero che, una volta chiusa la partita del referendum, sarà possibile abbandonare i toni apocalittici e tornare a ragionare sulle “vere” riforme istituzionali che sono quelle che possono migliorare il rendimento del sistema democratico e rafforzare il ruolo del Parlamento.