Dopo 46 giorni di melina il governo si è deciso e ha fissato la data dei referendum sul lavoro. Si terranno il 28 maggio. Forse. Non è affatto escluso infatti che il governo tenti di evitare il ricorso alle urne modificando la legge. Lo stesso ministro Poletti, ieri sera, ammetteva la possibilità di un decreto che recepisca il testo che verrà partorito dalla commissione Lavoro della Camera: «Per avere tempi compatibili con la situazione è possibile che il governo prenda il contenuto del dibattito alla Camera. Ma non è l’unica soluzione». In politica, di solito, frasi del genere significano che la decisione è già stata presa.

Quale sarà il contenuto del testo della Camera però è ancora incerto. La presentazione degli emendamenti scadrà oggi. Per avere un quadro più preciso bisognerà quindi aspettare domani. Il testo base adottato per ora prevede la possibilità di ricorrere ai voucher per le famiglie ma anche per le «microimprese», quelle cioè senza dipendenti. Per Poletti sarebbe comunque una modifica radicale, sufficiente a frenare l’abuso dei buoni: «Se fossero limitati alle famiglie l’utilizzo scenderebbe al 3%, se si tengono anche le imprese senza dipendenti andiamo al 17-18% rispetto a oggi. Dunque si va verso una drastica riduzione».

Il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano continua a ripetere che comunque il testo base è modificabile e ritiene che la cancellazione dei voucher per le microimprese, «non sia impossibile». Del resto anche Poletti non sembra escluderlo del tutto. E’ l’unica soluzione che soddisferebbe la Cgil. Ancora prima che la data venisse fissata, infatti, Susanna Camusso aveva fissato le condizioni del sindacato: «Non è con un maquillage che si può pensare di risolvere il problema dei voucher. Noi ne chiediamo l’abrogazione». I voucher, secondo la segretaria Cgil, dovrebbero essere usati «solo per le famiglie, acquistati dall’Inps e non dalle tabaccherie».

Il decreto sarebbe sufficiente a bloccare il referendum anche senza il sì della Cgil, che però in quel caso ricorrerebbe di certo in Cassazione. La legge afferma infatti che il ricorso alle urne potrebbe essere evitato solo se viene recepito lo spirito della modifica richiesta dal comitato promotore. La prova di forza sarebbe dunque un terno al lotto. In realtà un decreto non concordato con la Cgil sarebbe un rischio grosso anche prima dell’entrata in scena della Cassazione. L’approvazione al Senato sarebbe infatti tutt’altro che certa.

Poletti e Damiano hanno fatto il punto con i capigruppo Zanda e Rosato ieri sera, prima dell’assemblea dei parlamentari Pd con Gentiloni. Per ora gli unici No sicuri sono quelli di M5S e Sinistra italiana. Ma anche la Lega voterebbe quasi certamente contro il decreto, la cui sorte dipenderebbe pertanto dalla scelta di Forza Italia e da quella degli scissionisti dell’Mdp. Gli azzurri non hanno ancora deciso, ma le possibilità che scelgano il pollice verso per motivi opposti a quelli della sinistra, cioè perché considerano le modifiche una resa alla Cgil, sono alte. Ma anche se Berlusconi decidesse per il voto a favore, una legge sulla precarietà fatta per evitare il referendum e approvata grazie a Fi sarebbe per governo e Pd un esito disastroso. Così molto, e se Fi voterà No tutto, dipenderà dalla decisione di Mdp. E’ una lacerazione da manuale: per un partito «alla sinistra del Pd» esordire rompendo con la Cgil sul precariato sarebbe il peggior inizio possibile, ma dare la spallata al governo sarebbe un guaio quasi altrettanto grosso. Nessuno in queste ore prega per l’eliminazione della norma a favore dei buoni utilizzati dalle microimprese più degli scissionisti.

Se il governo si rassegnerà a far decidere gli elettori si porrà subito un altro problema: quello dell’accorpamento tra referendum e elezioni amministrative. «Spero che nessuno pensi di buttare via di nuovo milioni di euro per cercare di far mancare il quorum», dice per Si la capogruppo al Senato De Petris. Identica posizione assumono M5S e ovviamente la Cgil. Poletti «non esclude la possibilità», ma l’eventuale election day per il governo è un dilemma. Accorpare le due date equivarrebbe a rendere certo il raggiungimento del quorum. Separarle significherebbe esporsi al rischio di ripetere la devastante esperienza del referendum sulle trivelle, che pur non avendo raggiunto il quorum ha aperto la serie nera per Renzi. Assai meglio, per il governo tutto, la legge, come chiede Orlando. O molto più probabilmente il decreto.