Il dibattito degli ultimi giorni sul cosiddetto referendum trivelle è certamente significativo per una posta in gioco che va al di là, non solo del merito del quesito ma anche dei principi affrontati: diritto-dovere di voto e astensione, libertà di opinione, libertà di voto. È comunque importante cogliere i rari momenti in cui questi concetti trovano spazio sulle prime pagine dei quotidiani per provare a contribuire al dibattito, cercando di sottrarlo all’eterna contesa tra pro o contro Renzi. Uno scontro che ormai pare condizionare inesorabilmente il dibattito pubblico quotidiano, la dialettica politica e istituzionale. L’astensione, come sostenuto da alcuni commentatori, può certamente rappresentare la manifestazione di una scelta politica. Ed è vero che il «dovere civico» di andare al voto si può esercitare anche non votando e quindi contribuendo a evitare che si raggiunga il quorum. Come ogni scelta consapevole nell’esercizio dei propri diritti politici e civili, l’astensione va quindi tutelata e garantita. Il rischio, però, è che la rincorsa a difendere, nel dibattito in corso, il diritto proprio e di ciascuno ad astenersi dal voto, faccia perdere completamente di vista un aspetto centrale: cioè che la libertà di voto dei cittadini rischia di essere vanificata, perché compromessa in partenza, dalla condotta tenuta dal governo sin dall’inizio della procedura referendaria.

Nessuno, tanto meno chi scrive, ha mai pensato di mettere in discussione o limitare la «libertà di opinione» del presidente del Consiglio, o di impedirgli di attuare la politica del governo con ogni strumento istituzionale a sua disposizione. È stato il governo, piuttosto, a utilizzare i propri poteri amministrativi in violazione degli obblighi di neutralità previsti da norme e standard democratici internazionali a cui il nostro paese è tenuto. Una scelta che si inserisce nel solco di una quarantennale tradizione antireferendaria, e che l’esecutivo ha perseguito attraverso atti e provvedimenti finalizzati a boicottare il quorum, come abbiamo dimostrato nel nostro ricorso su cui il Tar si pronuncerà oggi. Ad esempio, indicando la data del 17 aprile – cioè la prima domenica utile – il governo ha fortemente limitato gli spazi di informazione, riducendo le possibilità di partecipazione al voto e determinare l’esito della consultazione; mentendo inoltre sull’impossibilità di procedere all’accorpamento con le amministrative, ha deciso di usare 300 milioni di euro dei cittadini per far fallire il referendum.

Sul piano della democrazia e dello stato diritto è questo l’aspetto più grave che non riguarda soltanto il referendum sulle trivellazioni ma ha riguardato e riguarderà ogni consultazione referendaria fino a che la legge italiana prevederà il quorum. Il «Codice di buona condotta sui referendum» fatto proprio dal Consiglio d’Europa e anche dal Governo italiano è contrario al quorum «poiché assimila gli elettori che si astengono a quelli che votano no. Incoraggiare l’astensione o l’imposizione del punto di vista di una minoranza non è sensato per la democrazia». Delle due l’una: o si supera il quorum per legge, oppure valgono le norme che impongono al Governo il dovere di essere neutrale e quindi non indurre all’astensione.

Se il governo Renzi vuole davvero segnare, almeno sul piano della democrazia, una rottura con tutti i governi precedenti, si impegni a modificare la discliplina dello strumento referendario, garantendo informazione e procedure più semplici. Quello che è serve all’Italia è insomma un vero e proprio Referendum Act, che metta fine all’opera di sabotaggio che si ripete ormai da decenni.

* segretario Radicali Italiani
** autore ricorso Onu contro l’Italia in materia referendaria