Osman Can, docente di diritto costituzionale, è stato giudice relatore della corte costituzionale turca e parlamentare Akp. Oggi è una delle poche voci di dissenso contro la riforma costituzionale di Erdogan.

Il dibattito sulla necessità di una nuova costituzione civile è vivo da molti anni. Quali sono i problemi principali della carta in vigore?

Il primo è che l’impianto ideologico vede lo Stato prevalere sul singolo e genera distorsioni in tema di diritti individuali. Il secondo è l’esclusività etnica, per cui ogni cittadino è considerato turco al di là del gruppo d’appartenenza. Terzo, il suo carattere centralista.

La costituzione del 1921 garantiva quello che in turco chiamiamo Sura sistemi, una forma di autonomia locale simile a quella catalana. Era frutto di un accordo tra Ataturk ed i kurdi per coinvolgerli nella guerra d’indipendenza, ma nel 1923 le élite in Ankara disattesero gli accordi e scrissero una costituzione centralista che divenne modello di quelle successive. Porre rimedio a queste tre criticità è una scelta politica che la nuova riforma non compie.

Il governo sostiene che questa riforma sia utile per superare la conflittualità delle istituzioni statali. È così?

Non lo credo. In ogni Stato il conflitto è intrinseco e servono norme democratiche che lo gestiscano. Si adottano sistemi di bilanciamento e condivisione del potere necessari per regolare il rapporto tra maggioranza e minoranze di ogni tipo: etnico, religioso, politico.

E serve un potere giudiziario indipendente per dirimere le controversie. Non si elimina il conflitto, lo si amministra attraverso un’architettura dello Stato adeguata e quella proposta da questo referendum non lo è.

Nella narrativa del Sì la parola democrazia è ricorrente e prende le sembianze di un rapporto diretto e senza intermediari tra leader e presidente. Come si può conciliare dal punto di vista costituzionale questa idea con la tutela dei diritti individuali e collettivi?

In Turchia il problema è stato per lungo tempo l’opposto e bisogna tenerne conto. La maggioranza era esclusa dal processo decisionale e dal potere, detenuto da un’élite illiberale kemalista che governava attraverso la presa sulle istituzioni e la forza dell’esercito.

Questa ideologia centralista è ancora presente nell’attuale costituzione ed è stata assorbita da Erdogan. Ora la maggioranza insiste solo sul requisito formale della democrazia come espressione di volontà della maggioranza, ignorando che la volontà popolare e la sua delega al governante necessitano di limitazioni. Quando si cerca di introdurre paletti, la memoria collettiva torna alla situazione precedente e la rigetta.

Ad accomunare queste due tendenze è la volontà non democratica di accentrare il potere nelle proprie mani, pur con strumenti diversi. Una linea diretta tra presidente e popolo non è democratica, è pericolosa. Servono regole che controllino il governante, una società civile attiva, una stampa libera e una comunità economica libera, altrimenti si genera un pericoloso populismo.

In Turchia è in vigore un regime di emergenza che ha attenuato le tutele costituzionali e ampliato i poteri dell’esecutivo, delle autorità di polizia e giudiziarie. Considerando l’estensione dei poteri concessi al presidente dalla riforma, si crea una sorta di stato di emergenza permanente?

A livello costituzionale rimane intatta la differenza tra stato di emergenza (SdE) e regime di normalità. Lo SdE è una misura legata ad una scelta politica di chi governa la cui dichiarazione rientra tra i poteri che la riforma intende garantire al presidente. Sarà sua prerogativa decidere se e quando il paese si troverà in un regime legislativo eccezionale come quello che stiamo vivendo in questi mesi.

Nel referendum sarà decisivo anche il voto di un’eventuale opposizione alla riforma da parte dell’elettorato Akp. Alcune figure di rilievo, penso ad esempio all’ex presidente Abdullah Gul, sono apparse titubanti e silenziose. Cosa impedisce di esternare dissenso e fare campagna attiva?

Dopo le elezioni del giugno 2015 ero parte di un gruppo che vedeva positivamente un governo di coalizione con il partito repubblicano Chp, che avrebbe avuto un amplissimo consenso popolare e la forza di riformare in senso democratico la costituzione e lo Stato.

Tuttavia le indicazioni dall’alto furono diverse e lentamente perdemmo sostegno, venni estromesso dalla cerchia decisionale e infine dalle liste delle elezioni di novembre. C’è anche un elemento psicologico che impedisce l’emergere di un soggetto alternativo all’Akp. L’elettorato ricorda il governo della nomenclatura kemalista, tutti condividono la memoria, l’esperienza e l’amicizia costruite nel tempo.

Questo legame collettivo si oppone ad una rottura plateale che verrebbe percepita come una pugnalata alle spalle del movimento politico nel suo complesso. Quindi il dibattito resta interno, non rompe il partito, però non ha la forza di creare alternative. Ma per quanto riguarda questi emendamenti alla costituzione, ci sono personalità di alto o medio livello in disaccordo con gli emendamenti. Nell’elettorato è la classe media emersa durante gli anni di governo Akp, conservatrice ma democratica, che non è convinta da questa proposta costituzionale. Costoro voteranno No.