«Se volete una classe politica aggrappata alla poltrona prendetevela», litigava con i suoi follower il presidente del Consiglio, mentre il presidente emerito della Repubblica si recava negli studi Rai per registrare la puntata di ieri sera di Porta a Porta. «L’obiettivo della riforma costituzionale non è tagliare le poltrone, questa sul referendum è diventata una sfida largamente aberrante», ha detto Giorgio Napolitano a Bruno Vespa. Ma anche lui naturalmente voterà Sì al referendum, un annuncio televisivo assai scontato.
«Voterò Sì in coerenza con tutte le posizioni che ho preso», ha detto giustamente l’ex presidente. È stato infatti lui, dal Quirinale, il principale sostenitore della riforma costituzionale (e Renzi gliel’ha intestata più volte: «Porta il nome di Napolitano»). Lo è stato in verità anche della nuova legge elettorale, quella che da alcuni mesi chiede di modificare in ragione di un «nuovo contesto politico», in realtà non diverso da quello che c’era quando l’Italicum fu approvato con la fiducia.

La riforma costituzionale invece convince ancora pienamente Napolitano. Quello che lo differenzia da Renzi – verso il quale si percepisce una freddezza crescente – sono le motivazioni. «L’obiettivo non è tagliare il numero dei parlamentari, ma avere un senato che rappresenti i territori e sia più snello». E per chiarezza: «Il senato composta da sindaci e consiglieri regionali è utile alla democrazia».
Se due antichi compagni che sono ancora oggi interlocutori frequenti di Napolitano, Emanuele Macaluso e Alfredo Reichlin, hanno deciso di non sostenere la riforma, l’ex presidente malgrado tutte le amarezze per la campagna elettorale «aberrante» non torna indietro e non farà mancare il suo Sì.
Eppure Napolitano non ha accolto l’invito di Renzi a presiedere il comitato del Sì. E in passato ha chiarito che «la riforma non porta il nome mio né di nessun altro, è stata fatta dal parlamento». Però si è speso troppo, almeno dal 2013 a oggi, per fermarsi all’ultimo miglio.

Napolitano è stato il lord protettore della riforma, intervenendo a ogni passaggio stretto per dare ragione al governo e torto ai «frenatori». Un’espressione che lui stesso non si preoccupò di evitare, così come non evitò «zavorra» o «paralisi», nel momento in cui sentiva di dover proteggere Renzi dalla minoranza Pd. I toni «aberranti» di oggi, in effetti, non sono proprio di oggi.
Renzi parlava di «palude» da prosciugare e di «poltrone» da tagliare già due anni fa, con Napolitano al Quirinale, e al suo fianco. Anche l’annuncio al quale si fa risalire la «personalizzazione» del referendum – «se non passa la riforma lascio la politica» – il presidente del Consiglio lo ha fatto la prima volta nel 2014. E il primo attacco alla «casta» Renzi lo ha fatto in parlamento nel discorso della fiducia, poco dopo che Napolitano gli aveva dato l’incarico.
Adesso l’ex presidente della Repubblica – che nel nuovo senato continuerà a sedere conservando com’è giusto (ma solo lui, con i senatori a vita) anche l’indennità – non fa nulla per nascondere il suo fastidio verso i toni renziani. «L’obiettivo della riforma non è tagliare le poltrone – insiste con Vespa – non condivido quelle motivazioni. Ma al referendum non giudichiamo Renzi. L’occasione l’avremo alle prossime elezioni fissate per il 2018».
Per quanto gelido, è proprio il tipo di appoggio che in questo momento è più utile a Renzi, che teme un voto di protesta anti governo. E così, anche se il suo stile è assai diverso, il presidente del Consiglio rispondendo ai cittadini che gli scrivono durante la diretta facebook dice in fondo la stessa cosa. «Vi sono antipatico? Vi capisco. Ma al referendum votate pensando ai vostri figli, perché questa occasione è un treno che non ripassa». Napolitano è fuori dalla chat, ma è dentro la stessa narrazione: «Dopo tre anni di lavoro che facciamo? Buttiamo tutto al vento?», chiede retoricamente a Vespa.

Per questo voterà Sì, anche se «la riforma non è che faccia miracoli, ma passi in avanti». E invita a votare sì rivolgendosi agli elettori di centrodestra, proprio come fa Renzi in questi giorni: «Nel contenuto molti punti di questa riforma sono simili a quelle precedenti, compreso quella di Berlusconi».
Il presidente emerito pizzica anche le corde della paura: «I rischi di crisi finanziaria ci sono sempre e in questa fase possono anche accrescersi per conseguenza di eventi internazionali che conosciamo. Non vorremmo vedere lo spread che cresce». Cresceva già nel 2011, quando Napolitano inventò il governo tecnico. Cinque anni dopo Monti e passato, resta lo spread. E il referendum.