Sono stato estensore e firmatario del documento dei dieci parlamentari Pd schierati per il No. Un documento motivato solo da ragioni di merito, cioè dalla serena ma ferma convinzione che abbiamo a che fare con una cattiva riforma. Quand’anche cambiasse l’Italicum. Ancora: un documento stilato l’estate scorsa, prima che si sviluppassero diatribe tra le correnti interne al Pd dunque al riparo dal sospetto che si confondessero i piani: politico e costituzionale, di merito e di contesa interna. Vorrei tenere fede a quella distinzione nonostante Renzi, ogni giorno di più, faccia di tutto per confondere i piani. A parole ha fatto autocritica sulla personalizzazione/politicizzazione/drammatizzazione della disputa, ha invocato un confronto di merito, ha rivendicato di avere voluto lui stesso il referendum perché fossero i cittadini a esprimersi su una così ampia riforma costituzionale. E tuttavia i suoi comportamenti palesemente si discostano da quei propositi. Nell’ordine: 1) contraddicendo la natura oppositiva del referendum (concepito dai costituenti come istituto cui potessero fare ricorso le minoranze sconfitte in parlamento), egli ha voluto il referendum, ma oggi liquida sprezzantemente tutti gli oppositori come “accozzaglia” di nostalgici, revanscisti, poltronari; 2) conduce in prima persona, a tempo pieno e con grande esposizione mediatica , la campagna referendaria con un oggettivo slittamento verso il plebiscito pro (o contro) il governo e l’intera sua avventura politica; 3) adombra (e poi debolmente smentisce) cataclismi in caso di sconfitta, ma è ovvio che contraccolpi vi sarebbero al modo di profezie apocalittiche che si autoavverano in quanto accreditate dal premier stesso; 4) rappresenta la discussione come una partita tra chi difenderebbe la casta e chi invece i batterebbe per ridurne i costi e l’ingombro.

Il culmine si è toccato con la foto di gruppo dell’“accozzaglia”, tutti indistintamente additati a pubblico ludibrio, che sembra sarà recapitata nelle case di tutti gli italiani. Mi sovviene, per analogia ma anche per differenza, un precedente messaggio indirizzato a tutti gli elettori: la “storia italiana” in carta patinata che il Cavaliere recapitò alle famiglie nella quale celebrava le sue gesta di marito, padre, imprenditore, politico dedito al nostro bene. Un’autocelebrazione propagandistica irritante e ridicola. Ma appunto un’autocelebrazione. Ora invece siamo alla pubblicità negativa, alla demonizzazione di chi la pensa diversamente.

Dunque, un premier non rispettoso verso chi opta per il no in un istituto quale il referendum che appunto contempla il S o il No; un politico che promuove il referendum e poi bolla come un’accozzaglia chi legittimamente si esprime in un senso che non gli garba. A fronte di queste vistose contraddizioni è difficile resistere nel virtuoso proposito di non “metterla (anche) in politica”. Meglio: di non stabilire una relazione tra tali comportamenti, sopra le righe e manichei, e il contenuto delle riforme, costituzionale ed elettorale. La cui cifra sintetica sta nella verticalizzazione e nella centralizzazione del sistema politico-istituzionale. In breve, in una concentrazione del potere.

In un suo saggio il costituzionalista Emanuele Rossi, che pure non si è schierato, mostra quanto problematico sarebbe lo scenario a valle del Sì, qualora cambiasse la maggioranza politica dopo le prossime elezioni. La fase attuativa richiederà anni e una maggioranza di altro segno potrebbe seguire due vie: o fare ostruzionismo nell’implementare la riforma o, più facilmente, farne una nuova, forte del precedente, quello di una nuova architettura dello Stato imposta unilateralmente dal governo. Reiterando la patologia di grandi riforme costituzionali fatte e rifatte all’avvicendarsi delle maggioranze di governo. Rossi si interroga sugli scenari del dopo voto da studioso, in un’ottica tecnico-giuridica. Noi lo dobbiamo fare da cittadini e da politici. La conduzione della campagna referendaria non può non instillare la preoccupazione che, a valle del sì, premier e governo si sentiranno autorizzati ad avere carta bianca sia sulle leggi elettorali delle due Camere, sia in uno stile di governo d’impronta ancor più leaderista, sia, infine, nel praticare una forma-partito che evoca l’uomo solo al comando. Più di quanto già non lo conosciamo (intendiamoci: non solo nel Pd). Suggellando il definitivo passaggio dal Pd come fu pensato al PdR (Partito di Renzi), secondo la formula di Diamanti. Un analista certo non ostile alle forme nuove della politica e al paradigma della democrazia maggioritaria e di investitura che oggi, significativamente, confessa la sua nostalgia per la mediazione dei buoni partiti.

Prometto che continuerò a fare ogni sforzo per distinguere la questione del merito costituzionale dalla questione politica (concernente governo e partito), ma di sicuro Renzi non aiuta.

*deputato Pd