Bis della Consulta. «Innammissibile», dopo quello sull’eutanasia legale, anche il referendum sulla cannabis. Anzi, «sulle sostanze stupefacenti», tiene a sottolineare il presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato nella conferenza stampa – un’assoluta novità, per la Consulta – tenuta ieri sera per comunicare la decisione maturata in giornata sui sei quesiti referendari riguardanti la giustizia (promossi da Lega e Partito radicale) e su quello per depenalizzare la coltivazione della marijuana sottoscritto da 600 mila firme digitali. E per tornare sulla decisione del giorno prima.

QUELLO che proprio non funziona, secondo Amato, nel quesito referendario sulla cannabis, è soprattutto il primo dei tre ritagli proposti al T.U. sulle droghe, il 309/90: «Il quesito è articolato in tre sotto quesiti – spiega il presidente della Consulta – ed il primo, relativo all’articolo 73 comma 1 della legge sulla droga, prevede che scompaia tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, che non includono neppure la cannabis ma includono il papavero, la coca, le cosiddette droghe pesanti. Mentre la cannabis è nella tabella 2. Già questo sarebbe sufficiente a farci violare obblighi internazionali plurimi che abbiamo e che sono un limite indiscutibile dei referendum». In più, «ci portano a constatare la inidoneità rispetto allo scopo perseguito perché il quesito non tocca altre disposizioni che rimangono in piedi e che prevedono la responsabilità penale delle stesse condotte». Se il quesito non avesse riportato questo «errore», sostiene Amato rispondendo alla domanda di un giornalista, avrebbe potuto anche essere ammesso. «Ma non sono io che scrivo i quesiti», aggiunge.

L’art. 73 comma 1 prevede però, secondo l’ultima versione della legge che viene aggiornata ogni anno, 17 condotte penali «di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14». Da queste condotte, il quesito prevedeva di abrogare la parola «coltiva». In breve, si sarebbe potuto coltivare qualsiasi pianta psicotropa ma non si sarebbe potuto né trattarla, né raffinarla, come nel caso del papavero per ottenere l’oppio, per esempio. Sulla questione riguardante l’«errore» delle tabelle, c’è giudizio discordante, perché effettivamente – come ha ipotizzato lo stesso Amato immaginando una possibile «confusione» da parte dei promotori del referendum – dopo la bocciatura da parte della stessa Consulta, nel 2014, della legge Fini-Giovanardi che metteva tutte le sostanze nella stessa tabella, compresa la cannabis, il testo sulle droghe è stato rivisto. Più volte, però. Per Amato, i promotori del referendum «si sono rifatti erroneamente alle tabelle della Fini-Giovanardi».

IL COMITATO promotore composto da decine di associazioni che lavorano sugli stupefacenti da decenni, invece, ritiene la lettura di Amato sbagliata: dopo il 2014, scrivono, «il comma 4 è tornato a riferirsi alle condotte del comma 1, comprendendo così la cannabis. La scelta è quindi tecnicamente ignorante e esposta con tipico linguaggio da convegno proibizionista». Ma la sentenza è inappellabile.

Gli altri due ritagli proposti dal quesito riguardavano l’articolo 73, comma 4, «limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”», e l’articolo 75 riguardo alla sospensione della patente di guida e il divieto di conseguirla per un periodo fino a tre anni.

IL «DOTTOR SOTTILE» però si è intrattenuto ieri con i giornalisti anche per motivare meglio la bocciatura, arrivata martedì sera, del referendum «Eutanasia legale»: anche qui, secondo Amato, non si tratta di «eutanasia» ma di «omicidio del consenziente». «È una questione di termini, di parole fuorvianti, ed è il motivo che mi ha indotto ad essere qui oggi», ha spiegato ieri sera dal Palazzo della Consulta. «Definirlo referendum sull’eutanasia genera legittime aspettative nelle persone che stanno soffrendo e che si aspettano di non essere discriminate nella loro richiesta di morire con dignità. Peccato però che il quesito riguardava l’omicidio del consenziente, e avrebbe finito per legittimare casi al di fuori del mondo eutanasico». Per colmare quello che il presidente dei giudici costituzionalisti definisce la «legittima aspettativa» dei malati che chiedono l’eutanasia, «ci vuole una legge».

Se gli estensori del quesito, afferma ancora Giuliano Amato, «avessero sollevato la legittimità costituzionale dell’articolo 579 c.p.» anziché chiederne l’abrogazione parziale, «avrebbe potuto essere trattato come è stato fatto con il suicidio assistito», dice riferendosi alla sentenza della Corte del 2019 (a quel tempo molto diversa nella composizione, però) “Cappato/Dj Fabo” che ha depenalizzato l’aiuto al suicidio in determinate condizioni del richiedente. «Ciò che ha affermato Amato – risponde l’avvocato Filomena Gallo che ha illustrato il quesito davanti alla Consulta – è quello che hanno riportato alcuni giornali nei mesi passati e di cui puntualmente veniva dimostrata la fallacia giuridica e applicativa. L’art. 579 c.p. è la norma che oggi in Italia punisce condotte di tipo eutanasico, dunque una sua parziale abrogazione, ferma restando la tutela delle persone vulnerabili, avrebbe reso l’eutanasia legale. Tutti gli esempi fatti che non rientrano in circostanze di malattia, sono oggi trattati dalla giurisprudenza facendo ricorso ad altri reati, primo fra tutti l’omicidio doloso. Da un punto di vista giurisprudenziale ed applicativo l’art. 579 c.p. ad oggi ha la mera funzione di impedire l’eutanasia legale nel nostro Paese».

SECONDO Amato la trattazione giurisprudenziale non è materia della Corte costituzionale. E a Marco Cappato, che ha accusato i giudici di «sentenza politica», il presidente risponde: «Io sono assai meno politico di lui». Su questo punto il commento del leader dell’Associazione Coscioni è il silenzio. Ed è giusto così.