Il discorso al Parlamento del Presidente della Repubblica è stato analizzato a fondo, i commentatori l’hanno battezzato: “agenda Mattarella”. Tuttavia molti hanno ignorato il richiamo alla necessità di un “costante inveramento della democrazia” e all’importanza di una “nuova stagione di partecipazione dei cittadini”.

Tra sei giorni la Corte Costituzionale si riunirà per giudicare dell’ammissibilità del Referendum Cannabis. Un seminario organizzato dal Comitato promotore, con la partecipazione di costituzionalisti ed esperti, ha evidenziato con completezza di argomenti la solidità giuridica del quesito sotto il profilo costituzionale, penalistico e del rispetto degli obblighi internazionali.

La questione che intendiamo sottoporre al popolo sovrano è l’urgenza, non più rinviabile, di riformare la legge italiana sulle droghe. Con il referendum si modificano le norme vigenti attenuando l’intervento sanzionatorio: non sarà più punibile la coltivazione di cannabis per uso personale, sarà eliminata la pena detentiva per tutte le condotte relative alla cannabis e anche la principale sanzione amministrativa per la detenzione per uso personale. Un intervento referendario che investe disposizioni di legge tra loro logicamente e funzionalmente collegate (di qui l’omogeneità del quesito) e che spinge politicamente verso una nuova regolamentazione della cannabis.

Se ne può parlare? Si può aprire un dibattito serio e informato che parta dalla valutazione degli effetti dell’attuale normativa e arrivi a una decisione meditata, equilibrata ma incisiva sulla realtà? La risposta è tutta nella possibilità di celebrare questo referendum.

Si tratta di una enorme questione sociale che tocca la vita di milioni di consumatori (se ne stimano più di 6 in Italia); di una questione di legalità, perché il mercato illegale cresce senza essere scalfito da un’azione repressiva che costa miliardi; di una questione di tutela della salute dei cittadini e della loro libertà di fronte alla pretesa punitiva dello Stato per condotte non lesive nei confronti di alcuno; di una questione infine che potrebbe generare opportunità di lavoro con l’apertura di un mercato legale.

Nonostante queste evidenze lampanti – che nel mondo stanno portando un numero crescente di Stati a superare le politiche proibizioniste – in più di trent’anni non c’è stato modo di riformare la legge italiana sugli stupefacenti e il suo impianto repressivo e criminogeno. Solo la Corte costituzionale è intervenuta a più riprese dichiarando l’incostituzionalità di alcune sue parti e l’intento referendario, come opportunamente rilevato dal professor Pugiotto, è del tutto assimilabile a quello della Corte.

Anche la Conferenza nazionale sulle Droghe organizzata lo scorso novembre dal Governo a Genova ha indicato al legislatore, come misure da adottare, la depenalizzazione dei reati di lieve entità, la decriminalizzazione effettiva della detenzione per uso personale, la legalizzazione dell’autocoltivazione, ma ciò non ha avuto alcun effetto sull’agenda parlamentare che vede tuttora arenata in commissione Giustizia la proposta di legge che darebbe alcune risposte.

Immobile è il Parlamento e immobile è la situazione delle carceri italiane, nelle quali si entra soprattutto per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 per detenzione o piccolo spaccio. Si può affermare con la forza dei numeri che una diversa legge sulle droghe eliminerebbe il sovraffollamento che viola la Costituzione.

Fino al 15 febbraio, quando la Consulta si riunirà per decidere, chiamiamo tutti alla mobilitazione democratica e nonviolenta. Perché è anche consentendo lo svolgimento di questo referendum, sottoscritto da oltre 600mila cittadini in una sola settimana, che si potranno inverare la democrazia e quella nuova stagione di partecipazione popolare evocata dal Presidente Mattarella con il richiamo insistito alla dignità.