«Chiunque diventi il nuovo primo ministro dovrebbe confidare nel rimettere il proprio accordo o non accordo al popolo in un pubblico scrutinio in simili circostanze voglio dire chiaramente che il Labour farà campagna per il remain sia contro un no deal che contro un accordo a firma Tory che non protegga l’economia e l’occupazione».

ALLA FINE L’HA GETTATO, Jeremy Corbyn, quel sasso nello stagno Brexit. Sotto minaccia delle armi e dopo una sfibrante guerra di attrizione, ma l’ha gettato. Come da succitata dichiarazione del leader, contenuta in una lettera agli iscritti, il partito laburista sosterrà apertamente il remain qualora fosse indetto un secondo referendum sull’accordo proposto dal futuro primo ministro britannico (assai verosimilmente Boris Johnson, che nel frattempo procede sobbalzando nella sua circense campagna alla leadership Tory che lo vede in vantaggio sul rivale Jeremy Hunt).

Il partito considera ancora, prosegue Corbyn, i colloqui avuti con la prima ministra uscente May come alternativa a «unire il Paese». In essi, il Labour riproponeva la propria posizione ufficiale di Brexit “molle”: partecipazione del Paese all’unione doganale, al mercato unico, protezione dell’ambiente e del lavoro. Segue il consueto richiamo a elezioni anticipate: sbocco sempre papabile, viste anche le dichiarazioni da soldato spaccone dello stesso Johnson sul temuto no deal. Ma si è prevedibilmente ben guardato, lo stesso Corbyn, dal confermare quanto sopra nel caso in cui il partito invece le vincesse queste elezioni (anticipate o meno) che, per inciso, è l’obiettivo di qualsiasi leader dell’opposizione. Insomma, non una parola su cosa farebbe il Labour se/quando al potere.

L’intersezione di Brexit con l’instancabile operazione di logoramento di Corbyn da parte dei centristi l’hanno costretto a questa concessione, raggiunta lunedì dopo una consultazione con i cinque sindacati maggiori (Unite, Unison, Gmb, Cwu, Usdaw) al partito affiliati. In questa versione, riveduta e corretta, il cerchiobottismo di Corbyn si allontana leggermente dal cerchio-elezioni anticipate avvicinandosi in egual misura alla botte-secondo referendum, mettendo relativamente a tacere le grida di dolore dei “moderati” neoliberali che ne vogliono la testa dal 2015 perché temono che una vittoria elettorale di questa leadership li seppellisca come meritano. Ed evita la crocefissione del partito a un remain a tutti i costi che, appunto, costerebbe il seggio a molti deputati in collegi a maggioranza leave: il rispetto dell’esito referendario del 2016 ne è, dopotutto, la linea ufficiale.

LA DECISIONE VIENE dopo settimane di travagli interni dovuti all’opaca performance del partito alle ultime elezioni europee e un quotidiano martellamento ai fianchi da parte di tutti i media mainstream nazionali. Ed è la risposta all’azione di disturbo del vice di Corbyn Tom Watson, che di quest’ala neoliberale è instancabile quinta colonna ed estrema speranza. Watson si è lamentato (correttamente) definendo la decisione come un altro espediente per prendere tempo e rifiutarsi di decidere, ma non prima di aver lanciato una petizione online per costringere la direzione del partito a fare attivamente campagna per un secondo referendum. Ma non è solo l’opposizione interna a strumentalizzare il remain in chiave anti-Corbyn.

I segnali foschi rilevati alle europee e la diminuzione degli iscritti anche sulla scia della virulenta questione dell’antisemitismo che dilania il partito (mentre un razzista nemmeno troppo cripto come Johnson si avvia a ereditare le chiavi di Downing Street) hanno persuaso anche alcuni membri del suo team a considerare l’assunzione ufficiale di una posizione pro-referendum/remain unilaterale come unica chance di futura vittoria elettorale.

MA È UNA SCOMMESSA tutta da vincere nell’aritmetica dei voti in parlamento, causa prima di questa impasse paralizzante e sfibrante che attanaglia il paese da ormai oltre tre anni: così come manca una solida maggioranza per mandare anticipatamente il Paese alle urne, manca quella per un famigerato secondo referendum. Per tacere del flop clamoroso dei transfughi della destra Labour e dalla sinistra Tory sempre nel nome del remain: estintisi prematuramente.