«Il governo non farà nessun passo in avanti, però…». Parlava per il governo e non a titolo personale Angelino Alfano, quando ieri mattina al microfono di Rtl 102.5 (la radio che Renzi sceglie abitualmente per le sue interviste) ha rilanciato l’ipotesi di far slittare il referendum costituzionale. Poco dopo il presidente del Consiglio ha smentito le «tentazioni» del ministro dell’interno, senza cancellare l’impressione di una manovra combinata. E non la prima: da tre giorni sono gli esponenti del Sì ad agitare l’idea di un rinvio «causa terremoto», mentre i sostenitori del No, che leggono gli stessi sondaggi, non vogliono sentirne parlare. Poi arriva Renzi, come ieri, che scarica le responsabilità sugli altri. «Non perdiamo tempo – dice – è un dibattito surreale sollevato per non parlare del merito della riforma: referendum e terremoto non hanno nulla a che vedere».

Surreale è apparso Alfano, che ha proiettato i suoi desideri sull’opposizione: «Se avesse questo sentimento e questa considerazione di buon senso, rispondente all’animo profondo degli italiani», ha detto caldeggiando il rinvio «emergenziale» delle urne. Ma sono tre giorni che l’opposizione dice «niente rinvio», anche la stessa Forza Italia alla quale il ministro dell’interno si è particolarmente appellato perché «dovrebbe collocarsi tra i moderati». Niente da fare, se Berlusconi resta sempre un po’ in sospeso su tutta la materia, i forzisti per una volta uniti avevano già bocciato sia il primo tentativo di abboccamento di Pierluigi Castagnetti sia i successivi rilanci di Sacconi e Cicchitto, graduati del partito di Alfano. Anche ieri Brunetta, Romani e Toti hanno chiuso subito, contraria anche Sinistra italiana mentre M5S ha cominciato ad appuntire i suoi argomenti polemici, Grillo inaugurando l’hashtag #iovogliovotare. Perché Renzi ha inequivocabilmente chiuso, ma solo per quanto riguarda il rinvio «causa terremoto». «Per me la questione non esiste», aveva già detto lunedì, non è però l’unica.

Il governo ha già fissato il voto nell’ultimo giorno utile e anche oltre, perché l’Ufficio centrale del referendum aveva dato il via libera al quesito – lo stesso che il poligrafico dello stato sta stampando sulle schede – addirittura all’inizio di maggio. Il referendum si sarebbe potuto tenere ai primi di settembre. Oppure ai primi di ottobre, ma solo perché un comitato del No e il comitato governativo del Sì hanno deciso (i primi senza riuscirci) di raccogliere le firme dei cittadini per replicare la richiesta dei parlamentari. Poi Renzi si è preso tutto il tempo consentito per far slittare la consultazione il più aventi possibile. Ma i tre mesi in più di campagna elettorale senza regole non sono bastati e siamo ancora al punto in cui il Sì avrebbe da guadagnare con un rinvio.

Esclusa l’ipotesi di uno spostamento «per forza maggiore» – che pure risulta essere stata considerata dal governo nelle prime ore dopo il sisma – c’è però la questione dei giudizi pendenti davanti alla giudice monocratica di Milano Loreta Dorigo. Sono due ed entrambi mirano a portare la legge sul referendum (la 352 del 1970) davanti alla Corte costituzionale, nella parte in cui non prevede la possibilità di far svolgere referendum costituzionali separati, in modo da sottoporre ai cittadini la riforma costituzionale frazionata in parti omogenee.

La questione è controversa, l’ideale sarebbe avere disegni di legge di revisione costituzionale separati e autonomi. Altrimenti – come nel caso della riforma Renzi-Boschi – lo «spacchettamento» presenta comunque aspetti di arbitrarietà. Il primo ricorso è stato presentato a giugno da tre avvocati – Tani, Zecca e Bozzi – ai quali si è successivamente aggiunto Besostri riproponendo così la squadra che abbattè il Porcellum. I lettori del manifesto ne sono a conoscenza da settembre, ma la faccenda è diventata popolare solo recentemente, quando l’ex presidente della Corte costituzionale Onida ha riproposto gli stessi argomenti in un secondo ricorso urgente alla stessa giudice. La decisione è attesa a giorni, eppure neanche un eventuale rimessione alla Consulta sospenderebbe il referendum. Né potrebbe sospenderlo la Corte costituzionale, che ha tempi molto lunghi non solo per decidere ma anche per fissare l’udienza. A meno che i giudici delle leggi non volessero accogliere il suggerimento dell’ex presidente Onida per il quale si potrebbe applicare «per analogia» il potere di sospensione che la Corte ha quando decide nei conflitti tra poteri dello stato. Ipotesi che lo stesso Onida ha proposto in maniera assai cauta nel suo ricorso.

Fuori da questa eventualità solo il governo potrebbe far slittare il referendum, con il consenso del presidente della Repubblica, per ragioni di opportunità in pendenza del giudizio della Consulta. Non per il terremoto. Ma a questo punto è il No che non accetta il rinvio.