Le motivazioni erano state già anticipate dal presidente Giuliano Amato, ma ieri – a due settimane esatte di distanza dall’inusuale (anche se non da tutti disdegnata) conferenza stampa con la quale il «Dottor Sottile», inaugurando una nuova stagione nel rapporto con i media, aveva spiegato perché la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibili i quesiti referendari sull’«eutanasia legale», sulla cannabis e sulla responsabilità civile dei magistrati – sono state depositate le decisioni dei giudici costituzionali.

Che sembrano rispondere in parte anche alle polemiche sollevate e alle critiche contrapposte dai comitati promotori dei referendum esclusi, in particolare quelli i cui quesiti sono stati supportati da quasi due milioni di firme reali, anche se in parte digitali.

La responsabilità diretta delle toghe infatti è uno dei sei referendum promossi dalla Lega e dal Partito radicale ma depositati da nove Consigli regionali a maggioranza di centrodestra.

Foto Attilio Cristini

Omicidio del consenziente, il diritto alla vita che diventa dovere

Era il più atteso, il più richiesto e il più “divisivo” dei quesiti referendari, quello per l’«eutanasia legale», come viene chiamato nella campagna del Comitato promotore. Si tratta dell’abrogazione parziale dell’articolo 579 c.p. (omicidio del consenziente) che secondo la sentenza n°50 (redattore Franco Modugno), contrariamente alle intenzioni dei promuoventi, avrebbe reso «penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione (art. 579, comma 3, che considera omicidio se il consenso è fornito da minorenni, da persone incapaci di intendere e volere anche momentaneamente o sotto effetto di sostanze, o se estorto, ndr)».

La norma di risulta quindi, secondo la Consulta, «verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo».

A prescindere, cioè, «dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata».

I giudici sottolineano che quando si tratta del bene “apicale” della vita umana, «la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima».

E ricordano l’ordinanza n. 207/2018 della stessa Consulta secondo la quale «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale» non si possono ignorare «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite».

Sul punto risponde l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni, primo promotore del referendum: «La giurisprudenza è chiara: tutte queste fragilità sono sempre ricondotte al concetto di deficienza psichica in quanto determinano disagi psicologici che sono sempre tutelati ai sensi del comma 3 dell’art. 579 c.p.

In altre parole: non è la situazione familiare in sé a determinare un’eventuale richiesta di morte bensì il malessere psichico che tale situazione provoca nella persona. Ed il malessere psichico è indiscutibilmente protetto dal comma 3 che rimaneva intatto a garanzia delle persone vulnerabili e del bene vita in generale».

Gallo, che ha discusso il quesito davanti alla stessa Consulta, considera parti delle motivazioni «frutto di considerazioni astratte che la Corte potrebbe svolgere nel ruolo di giudice delle leggi, ma non nel giudizio di ammissibilità di un referendum», generate «da valutazioni slegate dalla realtà, dai veri diritti, dalla vera sofferenza». Una «decisione politica» dunque, perché la Corte invece di «utilizzare gli strumenti descritti dalla Costituzione per verificare l’ammissibilità del referendum», ha usato quelli «del giudizio di legittimità che non sono previsti neanche dalla sua stessa giurisprudenza».

Intanto alla Camera è ripreso ieri l’esame della legge sull suicidio assistito ed è stato respinto il tentativo delle destre di porre ulteriori restrizioni al testo già fortemente discordante perfino dai paletti imposti dalla sentenza della Consulta del 2019. Con voto segreto sono stati bocciati gli emendamenti di Lega, Fd’I e FI. L’iter riprenderà oggi stesso.

Cannabis, il paravento degli obblighi internazionali

Secondo la sentenza n° 51, il referendum che si prefiggeva di depenalizzare la coltivazione senza scopo di lucro di cannabis è inammissibile perché viola l’art. 75 della Costituzione in quanto si pone «in contrasto con le Convenzioni internazionali e la disciplina europea in materia»; è inoltre poco chiaro, incoerente e perfino non idoneo allo scopo che si era prefisso.

Nelle 19 pagine del dispositivo, redattore Giovanni Amoroso, si spiega che – «per quello che è il suo contenuto oggettivo, l’unico rilevante, e non già la finalità soggettiva assunta dal Comitato nella sua memoria» – i due tagli proposti dal quesito all’art. 73 della legge 309/90 (eliminare nel comma 1 la parola «coltiva» tra le fattispecie di reato riferite a tutte le piante psicotrope, ed eliminare nel comma 4 le pene relative ai reati di cui al comma 1 ma riferite solo alla cannabis) avrebbe prodotto la liberalizzazione delle coltivazioni anche del papavero sonnifero e delle foglie di coca da cui si estraggono oppio e cocaina, vietate dalle Convenzioni di Vienna e di New York e dalla Decisione Quadro europea del 2004.

Secondo i giudici costituzionali, inoltre, ci sarebbe una contraddizione tra questi tagli e l’aver mantenuto intatti i due articoli 26 e 28 che sanzionano la coltivazione di qualsiasi pianta da cui possano estrarsi stupefacenti. Infine e in breve, «pur rimanendo precluse, nel giudizio di ammissibilità del referendum, valutazioni di merito sulla legittimità costituzionale della normativa di risulta», la Corte trova una «manifesta contraddittorietà della normativa di risulta con l’intento referendario» perché «la sanzione detentiva permarrebbe in riferimento ai medesimi fatti quando di “lieve entità”», e perché la coltivazione sarebbe comunque sanzionabile secondo gli articoli 26 e 28 del T.U.

In una prima nota, riservandosi di intervenire più approfonditamente tra qualche giorno, il comitato promotore giudica «lunare» l’accusa formulata al quesito di produrre la legalizzazione delle “droghe pesanti”: «La Corte impiega metà sentenza a dare conto a se stessa di quale sia la normativa vigente del testo unico, evidentemente avendo incontrato qualche difficoltà ricostruttiva del testo oggetto dei quesiti» e «riconosce che “indirettamente” il ritaglio referendario si riferiva anche alla cannabis, contraddicendo le mistificazioni avanzate dal Presidente Amato nella sua conferenza stampa del 16 febbraio, confermando la differenza tra “piante” e “sostanze” ma eludendo la conseguenza logica della necessità di mettere in campo una serie di altre condotte – non interessate dal referendum – affinché dalle prime si producano alle seconde».

Secondo i promotori, le Convenzioni Onu sono state interpretate «come se il mondo fosse fermo al 1961. Non solo ci sono Paesi che hanno modificato le normative nazionali sulle droghe (Uruguay, Canada, Malta e 19 Stati Usa) senza uscire dai documenti internazionali, ma nel 2016 la sessione speciale dell’Onu sulle droghe ha stabilito che le Convenzioni prevedono flessibilità interpretative per adeguarsi al contesto nazionale prevalente e che nel 2020, col voto favorevole dell’Italia, la Commissione Droghe dell’Onu ha cancellato la cannabis dalla tabella IV quella delle piante o sostanze di maggiore pericolosità».

Inoltre, spiegano, il fatto di non aver toccato gli articoli 26 e 28 serviva proprio per mantenere penalizzate le grandi coltivazioni di cannabis a scopo di lucro. Una contraddizione che semmai dovrebbe ricadere, dicono, sulla stessa decisione della Consulta. In ogni caso, fanno notare, «così facendo la legge sulle droghe viene resa intoccabile per via referendaria». Speriamo che lo sia per via parlamentare, almeno, visto che da mercoledì prossimo riprenderà in commissione Giustizia, alla Camera – – secondo quanto annunciato ieri dal presidente Mario Perantoni (M5S) – l’esame della pdl sulla depenalizzazione della coltivazione domestica della cannabis il cui testo base è già stato votato.

Responsabilità civile dei magistrati: «Manipolativo e creativo»

Come già preannunciato dal presidente Amato, la sentenza n° 49 (redattore Augusto Barbera) giudica inammissibile il quesito proposto da Lega e Prntt che abrogava «diverse disposizioni della legge n. 117 del 1988 (cosiddetta legge Vassalli), come modificata dalla cosiddetta riforma Orlando, n. 18 del 2015, che disciplina il regime della responsabilità civile dei magistrati per danni arrecati dagli stessi nell’esercizio delle loro funzioni», con l’obiettivo di trasferire l’azione risarcitoria dallo Stato al magistrato.

Secondo la Corte il quesito «avrebbe introdotto una disciplina giuridica nuova, non voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione non consentita». Inoltre, la normativa di risulta non avrebbe consentito alcuna azione risarcitoria «poiché ne sarebbero rimasti oscuri i termini e le condizioni di procedibilità».