Nei due giorni che hanno preceduto il vertice europeo il manifesto ha ospitato due articoli sul tema della redistribuzione.

Lo studio della Fondazione Visentini denuncia il continuo peggioramento delle prospettive di futuro per i giovani che si rendono indipendenti a una età sempre più avanzata e oggi vicina ai 40 anni per effetto di una società costruita e gestita “a misura delle generazioni precedenti”.

Il libro Lavorare gratis, lavorare tutti del prof. De Masi, affiancando i numeri dei vari disoccupati alle prospettive di ulteriori aumenti per innovazioni e robotizzazione, fornisce un quadro ancor più drammatico e propone una strategia per «convincere gli occupati a cedere una parte del loro lavoro».

Due letture diverse, un tema comune: se l’economia non cresce e le disuguaglianze sì, intanto cominciamo a distribuire più equamente ciò che c’è. Analisi e proposte sono tutte da discutere.

Nel primo caso è discutibile l’analisi perché le disuguaglianze che oggi constatiamo non sono il prodotto di un arricchimento della popolazione di una certa età.

Come ha scritto Linda Laura Sabbadini (La Stampa, 23 marzo) la disuguaglianza intergenerazionale non è cresciuta perché le generazioni anziane hanno migliorato la loro situazione, ma perché è peggiorata la condizione dei bambini e dei giovani soprattutto per la crisi occupazionale. E perché siamo rimasti una società a mobilità sociale congelata nella quale livelli di studio, occasioni di lavoro e stato sociale si trasmettono quasi sempre per eredità. Queste osservazioni sono rilevanti ai fini delle proposte e delle soluzioni. Se si trattasse semplicemente di un conflitto generazionale tra anziani che si sono arricchiti lasciando ai margini giovani, proposte come quella di tassare gli anziani per far ripartire i giovani sarebbero sufficienti. Si tratta, però, di problemi più complessi di stratificazione e di distribuzione di redditi e ricchezze, non interni al solo mondo dei pensionati, ma che riguardano tutti i segmenti della società. La risposta, quindi, può anche contemplare misure straordinarie di solidarietà a carico dei pensionati più ricchi, ma all’interno di un progetto di fiscalità generale che colpisca evasione, redditi, patrimoni e ripristini una rigorosa progressività.

Un ragionamento ancor più complesso va fatto nel secondo caso. È  vero che nelle nostre società ci sono anche persone che lavorano troppe ore, dai manager agli operai che fanno gli straordinari, ma i bassi livelli di disoccupazione non sono direttamente correlati. Se così fosse la proposta dichiaratamente provocatoria di offrirsi nel mercato del lavoro gratis per aprire un conflitto con gli occupati e far loro accettare di ridurre le ore di lavoro a favore di disoccupati potrebbe avere un senso. Ma ci sono problemi e complessità che non si possono eludere: le ore di lavoro non sono così facilmente scambiabili tra chi ne fa di più e chi non ne fa niente, per ragioni di contenuti professionali, di responsabilità, di dislocazione territoriale stessa dei lavoratori perché proprio dove c’è maggiore disoccupazione giovanile c’è anche un numero minore di lavoratori occupati.

Non a caso il libro formula un progetto ben più ambizioso e di lungo respiro. Costruire una piattaforma digitale che possa aggregare gli oltre 6 milioni di disoccupati fondando un movimento, un gruppo interconnesso che possa far incontrare domanda ed offerta anche tenendo presente che casa ed ufficio saranno sempre più intercambiabili. Il tutto all’interno di un progetto in undici tappe che mira ad elaborare un modello di società non più monopolizzato dal lavoro, ma dalla vita nella sua interezza. Un fare comunità che potrebbe essere dirompente per un mondo così frammentato.

I due lavori rappresentano anche due modalità estreme del fare politica: quella con una visione corta che spesso finisce per contrapporre interessi e soggetti producendo paralisi e quella con una visione lunga e che spesso finisce per essere ininfluente.

Oggi abbiamo davanti noi due processi aperti: la prospettiva europea di una implosione o di una nuova fase ri-costituente e la prospettiva italiana di una ristrutturazione delle forze politiche con una scomposizione/ricomposizione che potrebbe ri-costituire aree culturali come sinistra e destra o progresso e conservazione.

Assumere la dimensione epocale dei problemi che ci stanno davanti, avere e dare la consapevolezza di essa e dei problemi, chiamare a raccolta le energie culturali e sociali per riprogettare la società e la funzione stessa della politica e della partecipazione potrebbe diventare un terreno di lavoro comune alto, all’altezza dei tempi e dei problemi che stiamo vivendo?