In questi mesi sono state presentate in Parlamento e ancora non discusse tre proposte per l’introduzione del reddito minimo in Italia: una del Partito Democratico, una del Movimento 5 Stelle ed una di Sinistra Ecologia e Libertà, le prime due proposte di legge d’iniziativa parlamentare, l’ultima invece una proposta di legge d’iniziativa popolare, che ha raccolto oltre 50 mila firme di cittadini italiani. La prima considerazione da fare è che l’entità della misura nei tre testi di legge risulta molto simile, delle differenze maggiori si riscontrano invece nei criteri dei accesso per risultare beneficiari. Innanzitutto il testo di legge del M5S non prevede restrizioni legate alla condizione lavorativa (non fa accenno a situazioni di disoccupazione, precarietà inattività), prevedendo quindi un criterio più largo legato esclusivamente alla cittadinanza e alla necessità dei giovani compresi tra i 18 ed i 25 anni di possedere un titolo di studio riconosciuto dall’Ue. Per quanto riguarda i criteri reddituali di accesso alla misura, essi variano dall’indice Isee della proposta del Pd, al reddito personale imponibile di Sel al reddito netto annuo del M5S.
Sebbene spesso il dibattito intorno al reddito minimo si concentri esclusivamente sui costi della misura, sarebbe altresì utile un’analisi dell’impatto che il reddito avrebbe sulla povertà e la diseguaglianza in Italia. Secondo una simulazione che condotta utilizzando i dati della Banca d’Italia su “I bilanci delle famiglie italiane 2010”, costruendo un modello di simulazione statistica molto semplice è possibile notare come l’indice di Gini (una misura della diseguaglianza che varia da 0 ad 1 e si riduce se il trasferimento di reddito avviene dal più ricco al più povero), passerebbe da un dato iniziale (situazione italiana al 2010) dello 0,3309 ad un valore che potrebbe addirittura scendere allo 0,328, una riduzione importante per un paese diseguale come il nostro. Ovviamente l’impatto di ogni misura di reddito minimo dipende da come essa viene formulata. Rimodulando alcuni aspetti delle misure e dei criteri di accesso, si potrebbero determinare dei cambiamenti sulle stime di costo, come ad esempio la definizione di condizioni patrimoniali aggiuntive ai criteri reddituali (elementi fondamentali che mancano completamente nei testi di legge di Sel e del M5S e che sono al più compresi nell’indice Isee della proposta Pd); la subordinazione dell’accesso al beneficio a particolari percorsi di formazione e di politiche attive del lavoro (elemento che manca nel testo di legge del M5S); le stime di costo andrebbero invece riviste a rialzo in caso di introduzione di soglie di deducibilità per i redditi da lavoro; idem con l’introduzione di soglie di deducibilità spese per l’affitto o per il pagamento di mutua abitazione; concorso al finanziamento del sistema delle regioni su strumenti di reddito indiretto (accesso ai trasporti, ai servizi culturali, sostegno all’affitto ecc..).
Sul piano strettamente operativo occorrerebbe un sistema snello di raccolta delle domande e delle informazioni, necessarie all’istruttoria, con rapida definizione delle procedure e sollecita predisposizione dei pagamenti dovuti.
Un ultimo aspetto fondamentale, sul quale le forze politiche non hanno ancora dato una risposta sufficiente è la questione di una titolarità individuale del beneficio, completamente indipendente dal nucleo familiare. Ciò costituirebbe un vero e proprio avanzamento dei principi del welfare italiano, ad oggi familista e assistenziale.
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