Lunedì 15, a mezzogiorno, una delegazione della campagna che ha raccolto 50 mila firme per la proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo incontrerà la presidente della Camera Laura Boldrini. Visto lo stallo del parlamento, e la mancanza delle commissioni, i delegati delle oltre 170 tra associazioni, movimenti e partiti (Sel, Rifondazione e Verdi) chiederanno alla presidente di farsi carico dell’avvio dell’iter legislativo, indicando da subito una commissione di lavoro ad hoc che studi e approvi la proposta. All’incontro saranno presenti, tra gli altri, Il Basic Income Network-Italia, l’associazione Tilt, Antigone e San Precario di Milano, il sindaco di Cagliari Massimo Zedda e quello di Rieti Simone Petrangeli, l’associazione daSud e il Leoncavallo.

Questa iniziativa conclude una mobilitazione su twitter e facebook nata dopo la scoperta del tema del reddito da parte dell’opinione mainstream. Per alcune settimane la proposta di legge è stata oscurata dalla potenza mediatica di Grillo che ha occupato tutti gli spazi, confondendo le idee e parlando di «reddito di cittadinanza».

Grillo in realtà pensa a un sussidio di disoccupazione limitato a tre anni. Nella sua proposta la cifra percepita dai disoccupati e gli inattivi oscilla tra gli 800 e i 1000 euro al mese, erogati ad una platea compresa tra i 18 e i 64 anni, all’incirca 18 milioni di persone. Il finanziamento dovrebbe giungere dai fondi ottenuti dal taglio delle pensioni d’oro e degli F35. Fino ad oggi i suoi esponenti parlamentari non hanno presentato una proposta più dettagliata. L’unica fonte sono le parole del loro «megafono» secondo il quale il disoccupato dovrebbe perdere il diritto al sussidio nel caso di un rifiuto di una o più offerte di lavoro.

Poco incline a ragionare al di là di uno schema concertativo e lavoristico, pensando che il Welfare oggi si limiti al sistema degli ammortizzatori sociali o all’articolo 18 che protegge solo 4 lavoratori su 10, il Pd ha reagito in maniera disordinata e dilettantesca. Quando Bersani cercava un abboccamento con Grillo per formare un governo, il suo partitone ha formulato la proposta di un «reddito minimo di inserimento» (Rmi). Un autogol clamoroso perché l’Rmi è pura archeologia di centrosinistra a guida prodiana. Un tentativo fallito perché la sperimentazione avviata dal decreto legislativo n. 237 del 18 giugno 1998 in 306 comuni fu parziale e di scarso successo, e non venne rifinanziata dal governo Berlusconi nel 2002. Non lo hanno capito i dieci «saggi» che ieri hanno consegnato il compitino sulle riforme a Napolitano. Anche loro chiedono l’Rmi di Bersani e guardano con occhi dolci alla proposta di Monti sul «reddito di sussistenza». In Italia, il reddito è un sussidio di povertà, oppure non è. In più escludono la sua sostenibilità finanziaria in tempi di austerità. Falso, perché i soldi si possono ottenere tagliando la Tav in Val Susa e quei cacciabombardieri che cadono come mosche se colpiti da un fulmine.

Dopo le pernacchie, e gli insulti di Grillo, ieri il Pd è tornato alla carica. Tredici «giovani» deputati, tra i quali Danilo Leva e Marianna Madia (linciata giovedì a Servizio Pubblico da Massimo Cacciari, secondo il quale il reddito minimo è una «colossale puttanata») hanno presentato un’altra proposta. «A differenza dei 5 Stelle, la nostra proposta si basa su previsioni realistiche, non sul fanatismo». Stavolta i deputati Pd si sono accorti della proposta di legge popolare. Madia sostiene di volere accompagnare lunedì la delegazione dalla Boldrini.

E tuttavia anche quest’ultimo tentativo non si allontana dalla proposta grillina che ragiona su un modello di reddito vincolato al reddito percepito dal nucleo familiare (l’Isee) e non dal singolo come invece si sforza di fare la proposta di legge popolare. Questa idea del Pd rischia di discriminare la stragrande maggioranza dei «precari» con reddito Isee «non superiore» a 6880 euro all’anno. In più accorcia la durata della «sperimentazione» da tre a due anni e mezzo, dal 2013 al 2015. E impone un concetto di «workfare» simile a quello di Grillo: se il disoccupato non accetta un lavoro, lo Stato gli nega il sussidio da 500 euro al mese. I beneficiati da questa legge rischiano di non essere più di 400 mila. Su entrambe le proposte incombe il modello della legge tedesca Hartz IV, dal nome del dirigente della Volkswagen che si cimentò in una riforma punitiva del Welfare con la socialdemocrazia di Schroeder. In questo caso, chi rifiuta un’offerta di lavoro riceve una sanzione di 100 euro per tre mesi, un secondo rifiuto altri 100 euro, il terzo comporta la sospensione. Sotto i 25 anni basta un solo rtiufiuto per perdere il sussidio per tre mesi. Questa riforma ha prodotto in Germania un esercito di disoccupati ricattati dallo Stato.

Proprio quello che invece vogliono evitare i promotori della proposta di legge popolare. Per loro il reddito deve essere percepito fino al miglioramento della condizione lavorativa della persona, compresi i migranti (presenza non contemplata da Grillo né dal Pd). Dev’essere determinato secondo le linee europee della congruità, proporzionato sulle competenze professionali e il livello di studio, non ha limiti di tempo ed esclude il ricatto di accettare un lavoro di livello inferiore a quello precedente. Si tratta di 600 euro al mese, 7200 all’anno, per 8 miliardi all’anno, come indicato da San Precario che lo definisce «reddito di base incondizionato». Questa misura non è rivolta solo ai disoccupati, ma anche a chi lavora sottopagato, ad intermittenza o al nero. Il reddito non è un’ammortizzatore, né un’elemosina , ma una tutela universale per i lavoratori.