Il primo passaggio parlamentare del «decretone» che contiene il sussidio detto impropriamente «reddito di cittadinanza» e le pensioni «quota 100» ieri al Senato (141 voti favorevoli, 110 contrari) è stato presentato ieri dai Cinque Stelle e dal loro premier Conte come «una rivoluzione del Welfare», i cui benefici sono «lo stimolo alla crescita e la riduzione del rischio di cadere in povertà». Pesa, sulla valutazione enfatica di un provvedimento che avrà bisogno di almeno 15 tra convenzioni, decreti attuativi e intese con le Regioni per partire il 6 marzo (il modulo Inps è online) e essere erogato da aprile, l’idea che questa sia la prima misura contro la «povertà assoluta» in Italia.

NON LO È, PERCHÉ il «reddito» è l’ultimo di una serie parziale di provvedimenti iniziata con la «social card» del governo Berlusconi nel 2010 e conclusa con il «reddito di inclusione» (ReI) del Pd nel 2017. Lo ha ricordato ieri la commissaria Ue agli Affari sociali Marianne Thyssen secondo la quale il reddito penta-leghista« è stato costruito sull’esperienza dello schema precedente di reddito minimo garantito» – il «ReI», appunto – «integrando i servizi sociali con i servizi per la disoccupazione, e questo è qualcosa che noi abbiamo sempre sottolineato». Un po’ d’ordine tra la propaganda della maggioranza, che si reputa «rivoluzionaria», e quella del Pd che lamentala perdita di una misura diversamente inefficace.

DUE SONO LE NOVITÀ: la spesa (sulla carta: 5,9 miliardi quest’anno, più quasi uno per i centri per l’impiego) e l’ambizioso progetto di «workfare», ovvero lo scambio tra un sussidio pubblico e l’obbligo di lavorare. È questa la «rivoluzione» di cui si vantano i populisti in Italia: introdurre, con vent’anni di ritardo, i sistemi adottati in Germania, Inghilterra o Francia quando al potere c’erano i socialisti della «Terza via», da Blair a Schroeder. Con alcune, significative, aggiunte peggiorative. Chi accetterà un sussidio, risultato della differenza tra 780 euro e i redditi Isee e da lavoro, dovrà fare da otto a 16 ore a settimana di lavori obbligatori per gli enti locali; formarsi e riqualificarsi; accettare impieghi (non inferiori a 858 euro) a 100 km da casa entro sei mesi, 250 entro l’anno, in tutto il paese in seguito (esentati nuclei con minori e disabili).

IL «POVERO» con un reddito Isee inferiore ai 9.360 euro annui sarà inoltre trasformato in un veicolo finanziario per gli incentivi che questo governo, dopo il Pd con il Jobs Act, erogherà alle imprese oltre che alla burocrazia pubblica e privata a cui saranno destinati «premi di produzione». La speranza del governo è che, in questo modo, aumenti il basso tasso di occupazione (58,5%), il penultimo in Europa; crescano i consumi dei beneficiari obbligati a spendere il sussidio, trainando così la crescita. Una previsione è stata messa in dubbio, da ultimo, dal «country report» reso noto ieri dalla Commissione Ue secondo la quale l’impatto dal «reddito» sul Pil sarà dello 0,15%, su una crescita stimata quest’anno allo 0,2%. Per quanto riguarda le speranze legate all’occupazione vale un dato, reso noto l’altro ieri dal rapporto sul mercato del lavoro di Inps, Istat e altri: i miliardi di euro erogati alle imprese dal 2013 a oggi hanno inciso per il 28% sui dipendenti totali, in maggioranza precari.

CONTE SOSTIENE che le previsioni Ue sottovalutino l’impatto del «reddito» e di «quota 100» (con il turn-over bloccato un anno nella P.A). Il ministro dell’Economia Tria sostiene che porteranno «a un marcato calo della povertà». Hanno ragione, nel senso che il «reddito» potrebbe anche creare una piccola bolla occupazionale facendo passare gli inattivi o gli esclusi dal mercato come «occupati». Con il lavoro per i comuni, la formazione obbligatoria e in misura minore i nuovi assunti, le statistiche sulla povertà diminuiranno e quelle dell’occupazione aumenteranno . Ciò non significa che la povertà sarà sconfitta. Sarà diversamente nascosta. È questa la funzione del «workfare» e della «trappola della povertà» prodotta in altri paesi europei. Se funzionerà, il «reddito» creerà la stessa trappola in Italia. Però il governo potrà dire che ci sono più lavoratori attivi e occupabili. Questo è il trucco.

IL PRIMO GIRO DI BOA, tra le polemiche di rito al Senato, ha reso ancora più complicata la vita agli stranieri extracomunitari residenti da 10 anni: potranno ricevere l’assegno solo con la certificazione sul nucleo familiare del loro stato di provenienza. Previsti inoltre nuovi accertamenti sulla situazione abitativa di chi si è separato o divorziato dopo il primo settembre 2019. Il cambio di residenza, e dunque la situazione affettiva, di una coppia dovrà essere certificato dalla polizia locale. Senza il suo controllo, donne e uomini non avranno il sussidio. Questo è uno dei segni più concreti della «rivoluzione» in corso. Il provvedimento approderà la prossima settimana alla Camera dove saranno affrontati i nodi ancora da sciogliere, a partire dalle risorse per famiglie numerose e disabili. Si chiude entro il prossimo 29 marzo.