Il sottosegretario agli Affari regionali Stefano Buffagni (Movimento Cinque Stelle) si è detto « preoccupato per l’applicazione del reddito di cittadinanza non per una questione di Nord-Sud, ma per la grandezza della misura del reddito stesso – ha detto a «Quarta Repubblica» su Retequattro – Controllare ad esempio che 102 mila famiglie milanesi, la platea potenziale del reddito, vadano ai centri per l’impiego e si impegnino a cercare un lavoro è davvero difficile. Ci sono molte difficoltà potenziali, ma bisogna lavorarci. Nessuna polemica, l’impegno è farlo partire il prima possibile».

I dubbi sul modo in cui le persone possano essere convinte a rivolgersi al sussidio di povertà detto impropriamente «reddito di cittadinanza» sono fondati anche in ragione delle condizioni disciplinari annunciate: obbligo di lavoro gratuito per 8 ore a settimana; dovere di accettare un’offerta di lavoro anche oltre i 51 chilometri dalla città di residenza; vincolo alla formazione obbligatoria; controllo sui consumi e obbligo a spendere la somma mensile senza potere risparmiare nulla; carcere fino a sei anni per chi lavora in nero e percepisce il «reddito»; incertezza sul lavoro, probabilmente precario, che sarà trovato (sempre che ce ne sia).
Le incognite riguardano anche l’impatto economico della misura. Le ha indicate ieri nel’audizione alla Camera sul ddl bilancio del presidente Istat, facente funzione, Maurizio Franzini. L’Istat ha avvalorato l’ipotesi secondo la quale i 6,5 miliardi di euro (più 2,2 del «reddito di inclusione» (ReI) e 1 destinato alla «riforma» dei centri per l’impiego) potranno generare un aumento massimo dello 0,3% del Pil «nel caso in cui lo si consideri come uno shock sui consumi alle famiglie». Claudio Borghi, presidente leghista della commissione Bilancio alla Camera, ha messo in dubbio il calcolo di un moltiplicatore che ha definito «strano». Gli effetti sono stati confermati invece da Roberto Monducci, dirigente Istat: «Non rileviamo problemi particolari» ha detto. «La valutazione dell’Istat – sostengono i deputati M5S della Commissione Bilancio della Camera – conferma che il reddito è una misura per il sostegno dei consumi e il rilancio della domanda interna».

Tuttavia i fatti potranno dimostrare qualcosa di diverso. Così concepito, e al netto di ogni considerazione sulla realizzabilità di tale progetto e sul rispetto della libertà dei beneficiari ridotti a consumatori eterodiretti da una piattaforma digitale, l’effetto di questo «reddito» sul Pil dovrebbe terminare dopo cinque anni, «quando l’output gap e il conseguente aumento dei prezzi annullerebbero gli effetti positivi della spesa pubblica». Nel frattempo, ha precisato l’Istat, non dovrebbero verificarsi «peggioramenti delle condizioni di politica monetaria e che non ci siano aumenti dei tassi di interesse di breve termine». Si tratta anche di capire se le previsioni avventurose sulla crescita formulate dal governo saranno rispettate. Per avere una crescita all’1,2% del Pil nel 2018, come previsto nella Nota di aggiornamento al Def, occorrerebbe un rimbalzo dello 0,4%. Difficile da immaginare se il terzo trimestre si è rivelato stagnante per la stessa Istat. Proiettate sull’anno prossimo, è molto difficile che la stima del governo all’1,5% possa essere rispettata.
L’eventuale impatto dello 0,3% del «reddito» sul Pil dovrebbe inoltre essere misurato a partire da una crescita che si annuncia di gran lunga più bassa. Senza contare che questa misura dovrebbe partire perlomeno da aprile 2019. Il suo ipotetico effetto propulsivo su 12 mesi sarà inferiore rispetto a quello preventivato, perché non considererebbe almeno un trimestre. Sempre che i «9 miliardi» destinati al «reddito» restino tali e non siano tagliati dalle nuove clausole di salvaguardia che il governo starebbe studiando in vista di una crescita nettamente inferiore e di un deficit ben più alto del 2,4%.

Le perplessità sul sussidio potrebbero trovare un riscontro anche sulle modalità di calcolo della differenza tra il tetto massimo di 780 euro e il reddito Isee e dunque sulla platea dei beneficiari potenziali. Dall’audizione dell’Istat si desume che il calcolo dell’importo dovrebbe essere effettuato in base alla proprietà di un appartamento o dell’affitto. Il 40% di circa 1,8 milioni di famiglie in «povertà assoluta» vive in case di proprietà, quasi una su 5 paga un mutuo che varia da Nord a Sud e in media si attesta sui 525 euro. Sul calcolo del sussidio potrebbe influire anche la composizione del nucleo familiare. Il governo è al corrente del problema e starebbe valutando gli scenari. Ma al momento nulla più di questo è possibile ipotizzare, se non in analogia con misure simili. I dettagli saranno noti solo dopo Natale quando dovrebbe essere emanato un decreto. E non è detto che allora i problemi saranno risolti.

Dall’audizione Istat è risaltata anche la drammatica condizione di impoverimento e vulnerabilità sociale in cui vivono due milioni di persone che rinunciano a visite o accertamenti specialistici per le liste di attesa, mentre oltre 4 milioni rinunciano per motivi economici. La più colpita da questa situazione è la fascia di età tra i 45 e i 64 anni, e il 4,4% degli over 65.