Nella breve storia del sussidio impropriamente definito «reddito di cittadinanza» sono emerse due rappresentazioni della povertà: la prima è quella del sospetto verso i «fannulloni» e i «divanisti» («cittadini parassitari», li chiamano i vescovi della Cei) che approfitteranno di una misura calcolata sulla differenza tra 780 euro e il patrimonio in loro possesso. La seconda è quella del paternalismo di uno Stato «etico» che promette di «fare bene dei poveri», «investire sulla felicità degli italiani» e controllerà consumi e comportamenti attraverso piattaforme digitali, obbligandoli a lavorare fino a 16 ore a settimana per i comuni e a trasformarsi in veicoli finanziari dei sussidi che il governo ha promesso alle imprese in caso di assunzioni. Come ha fatto il Pd di Renzi con il Jobs Act, criticato dai Cinque Stelle ora al governo con la Lega.

In attesa che i primi sussidi siano erogati a partire dalla seconda metà di aprile, a poche settimane dalle elezioni europee di fine maggio alle quali i penta-leghisti si presenteranno con il sussidio e le «pensioni-quota 100» chiavi in mano, la combinazione tra il sospetto verso i poveri e la volontà di sorvegliarli ha creato una sintesi tra il populismo penale e la xenofobia a fini elettorali. Da un lato, questo ha portato all’aberrazione giuridica di pene fino a sei anni di carcere in caso di dichiarazioni false. Dall’altro lato, è stata ratificata l’esclusione incostituzionale degli stranieri extra-comunitari residenti da meno di dieci anni, mentre il precedente sistema del «reddito di inclusione» (nucleo fondativo del nuovo «reddito», non l’alternativa come si sostiene) ne prevedeva solo due. Nelle versioni precedenti del «decretone» erano stati previsti cinque anni.
La campagna classista, dalle destre fino a esponenti del Pd, contro la «vita in vacanza» dei poveri, soprattutto meridionali, ha colpito per l’ infondatezza e la pretestuosità. Non solo ha deliberatamente equivocato un provvedimento ispirato dalla stessa ideologia dei suoi critici, ma ha legittimato il peggioramento delle sanzioni senza accorgersi di danneggiare il diritto all’autodeterminazione già compromesso dalla povertà. Da posizioni opposte, i contendenti sono riusciti nell’impresa di occultare il reale contenuto del «reddito di cittadinanza»: un diritto sociale fondamentale del singolo svincolato dall’obbligo del lavoro e della nazionalità. Questo elemento, decisivo per definire tale il «reddito di base», si perde in un sistema che mescola programmaticamente l’assistenza ai poveri con l’obbligo delle politiche attive del lavoro: il workfare. Da oggi la ricerca del lavoro sarà la condizione per avere il sussidio.

Di passaggio in passaggio, oggi siamo al secondo alla Camera, Lega e Cinque Stelle hanno intensificato la volontà di disciplinare la vita di chi, in cambio di un sussidio pubblico, dovrà accettare offerte «congrue» di lavoro, non inferiori a 858 euro mensili, a 100 km da casa entro sei mesi, 250 entro 12 mesi, ovunque nei restanti 18 mesi rinnovabili per altri diciotto. Prevista un’integrazione di tre mesi, come se questo bastasse per pagare le spese di viaggio e di affitto all’eventuale assunto, single o ancor peggio membro di una famiglia numerosa, entrambi forzati a trasferirsi per soddisfare l’incrocio tra domanda e offerta sul mercato. In questa condizione potrebbe trovarsi più del 30% della platea potenziale della misura, calcolata da Istat e Inps tra i 2,4 e i 2,7 milioni di persone. Sempre che l’ambizioso progetto di riforma dei centri per l’impiego funzioni. E che esistano tre offerte di lavoro in un paese con uno dei più bassi tassi di occupazione (58,5%). Tutto il progetto si regge su questa previsione idealizzata.

Nell’immediato la «rivoluzione» annunciata da Luigi Di Maio intensificherà la precarietà. Lo dimostra il paradosso dei precari che cercheranno un lavoro a poveri e disoccupati. Sarà la condizione dei 3 mila «navigator» che si aggiungeranno ai 654 attuali dell’Anpal Servizi che oggi manifestano a piazza Montecitorio chiedendo la stabilizzazione. Parafrasando Piero Sraffa: produzione di precari a mezzo precari. È la regola nella società dove il lavoro a tempo indeterminato si è trasformato in quello di chi per lavoro cerca un lavoro.